La domanda più ovvia è: per quale ragione la sinistra radicale, in Italia, da anni resta inchiodata a valori cosi marginali di consenso? La risposta più ricorrente è che i gruppi che la rappresentano sono portatori di una politica settaria, rosi da continue litigiosità interne, votati alla scissione. È un giudizio severo, che coglie elementi di verità, ma puramente descrittivo e lascia in ombra tante altre ragioni profonde di possibili spiegazioni. Qui per sinistra radicale intendo essenzialmente Rifondazione comunista e Potere al popolo, lascio fuori i tanti partitini comunisti e naturalmente Unione popolare, troppo giovane per essere giudicata con un minimo di prospettiva storica. Ma su cui tornerò.
Occorrerebbe infatti spiegare come mai queste formazioni non incrementino la loro forza in un contesto sociale e politico così favorevole a una prospettiva radicale. Con la crescita clamorosa delle disuguaglianze sociali, l’impoverimento di strati crescenti di popolazione, il moderatismo centrista del Pd, le ambiguità del Movimento 5 stelle, l’Italia dovrebbe rappresentare il laboratorio ideale per il rapido emergere di una forza di sinistra. Tanto più che le due formazioni non mancano di assumere posizioni avanzate sui tanti problemi della vita nazionale, e da anni partecipano, in alcuni territori, alle lotte operaie e alle proteste dei cittadini.
Io credo che una spiegazione immediata della loro perdurante marginalità risieda in una lettura politicamente inadeguata della situazione presente, dietro cui si nasconde, completamente rimossa, una catastrofe storica che riguarda l’intera dimensione della politica in età contemporanea. Un tracollo materiale e simbolico che ovviamente investe oggi il destino di tutte le forze progressiste.
È idea comune nel campo della sinistra che la politica sia una forma qualsiasi di pratica intellettuale, la cui riuscita dipende dall’aderenza dell’analisi alla realtà fattuale, dall’onestà dei principi ispiratori, dalla scelta coerente di rappresentare i ceti svantaggiati dalle politiche dei vari poteri. Ma dovrebbe essere evidente che questa è solo una premessa.
Non è sufficiente stare accanto al popolo e alle sue sofferenze per diventare popolari, se non si entra nel raggio visivo dell’opinione pubblica nazionale. A meno che non si creda, di diventare, dopo anni di battaglie, talmente grandi e forti da poter dare un giorno l’assalto al Palazzo d’inverno, occorre riconoscere che una forza politica cresce se aumenta il suo consenso elettorale. È questa la porta stretta attraverso cui occorre passare in un sistema democratico.
E che cosa accade puntualmente nelle scadenze elettorali? Noi tutti lo chiamiamo il ricatto del voto utile: quello che per un quindicennio il Pd ha utilizzato per vampirizzare le forze alla sua sinistra, complici i sistemi elettorali da esso difesi o creati. È stato certamente questo ma anche qualcosa di più. I sempre più ridotti elettori italiani che entrano in cabina, soprattutto quelli che si attendono dai governi un possibile mutamento della propria condizione, affidano il proprio consenso non alle forze che hanno il programma più esaltante, ma a quelle che per consistenza numerica consentano di sperare in qualche iniziativa parlamentare utile. Tanto Rifondazione comunista che Potere al popolo non nutrono alcuna preoccupazione di come essi appaiono all’opinione pubblica generale, badano all’idea che se ne fanno i propri seguaci e, teoricamente, la classe operaia e i ceti popolari. I quali evidentemente, pur avendone stima, nel caso ne abbiano sperimentato da vicino l’appoggio e la solidarietà, non li votano. Disertano le urne o votano qualche altro partito a cui affidano qualche vaga chance di mutamento.
Dunque queste formazioni sono chiuse in una trappola: sono troppo piccole e deboli, per essere credute capaci di realizzare i loro programmi e quanto più si mostrano radicali e intransigenti – la loro ragion d’essere come forze politiche alternative – tanto più le loro pretese appaiono velleitarie.
Dunque, la prima e più importante risposta alla domanda dell’inizio viene dalla politica irrealistica dei gruppi dirigenti, i quali, significativamente, non perseguono più di tanto alleanze nell’ambito della sinistra, una condizione decisiva per uscire dalla trappola, per non apparire troppo deboli e isolati. Oggi il comportamento di sospetto, se non di ostilità, nei confronti del Movimento 5 stelle è molto significativo e conferma la vecchia logica di auto emarginazione. Ancora più evidente specie in questa fase, nella quale Conte è un concorrente temibile, avendo compreso quale vasto spazio si apra a sinistra con il dissolvimento strisciante del Pd.
Non entro nel merito, come premesso, della novità rappresentata dalla nascita di Unione popolare di cui Rifondazione comunista e Potere al popolo costituiscono componenti essenziali insieme al gruppo di ManifestA. È un esperimento appena avviato. Ma ancora oggi, in gran parte di questi gruppi dirigenti – non necessariamente nelle varie militanze locali – si annida, inscalfita, la colossale e tragica incomprensione storica dell’epoca in cui viviamo.
Presentarsi alle elezioni del Lazio con un proprio candidato rientra in questo basso orizzonte di pensiero. Senza dire che non pochi rappresentanti, in alcuni casi dirigenti nazionali di Potere al popolo, vanno in giro per l’Italia ancora sotto le insegne del loro partito, mostrando evidentemente sospetto e sfiducia nei confronti del tentativo di unità condotto da Luigi de Magistris, portavoce di Unione popolare: unico e ultimo progetto d’innovazione politica che li può salvare da una fine certa nell’irrilevanza definitiva.
Ora, quali sono in stringata sintesi giornalistica i tratti tragici della condizione attuale dei ceti proletari, delle forze politiche, delle culture e dei gruppi che verrebbero rappresentarli? Si tratta degli esiti di una catena inesorabile di processi ed eventi che hanno demolito configurazioni sociali di durata secolare, sconvolto in profondità, per lo meno in gran parte del mondo sviluppato, le soggettività umane, cambiato la dimensione e la qualità stessa della politica. Negli ultimi 30 anni è cambiato tutto e la sinistra radicale è rimasta chiusa nei quadri di riferimento del Novecento.
Non è retorica. L’iniziativa capitalistica avviata da alcuni grandi Stati dell’Occidente, Reagan negli Stati Uniti e Thatcher in Gran Bretagna, ha visto soffiare i venti della Fortuna nelle sue ampie vele e cambiato volto al mondo. La Fortuna nel senso moderno e drammatico con cui Machiavelli applica il termine alle vicende della politica. Per una fatale congiuntura astrale la deregulation, avviata dai due leader si è incontrata con la rivoluzione informatica. Una innovazione tecnica senza precedenti, che ha concesso ai gruppi capitalistici di ristrutturare le proprie imprese, frantumando, con le varie forme di subappalto, il corpo coeso della classe operaia dell’era fordista. Ma soprattutto consentendo al capitale, non solo a quello finanziario, con la strategia delle delocalizzazioni, una libertà mondiale di movimento mentre la classe operaia e le forze che la rappresentavano restavano inchiodate nel recinto nazionale. Una libertà delle imprese di portare le proprie fabbriche dove la classe operaia era più docile e i suoi salari più bassi, diventata ben presto un ricatto sistematico contro i lavoratori in lotta in tutto l’Occidente.
Negli ultimi trent’anni chi ha preteso aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro ha dovuto chinare la testa di fronte alla minaccia di chiusura dell’impresa e di trasferimento dei suoi impianti. Non si comprende quel che è avvenuto alla lotta politica in questa fase storica se non si afferra questo nodo essenziale: il depotenziamento del conflitto operaio, che è stato il motore dell’innovazione industriale per tutta l’età contemporanea, e ha fornito alle forze della sinistra la spinta per redistribuire la ricchezza e democratizzare lo Stato. Non a caso oggi, dispersi e scoraggiati i conflitti operai, il capitalismo sembra tornare al carattere selvaggio delle sue origini. Ma la Fortuna ha voluto soffiare ancora più forte nelle vele del capitale.
Ai primi degli anni ’90 crolla l’Urss, che pur essendo un pachiderma burocratico e autoritario, aveva pur sempre costituito una minaccia per i poteri capitalistici. Essa costituiva una forza competitiva, che ha spinto gli Stati dell’Occidente ad ampliare gli spazi del Welfare per sottrarre consenso ai partiti comunisti nazionali. Sul piano simbolico quel tracollo voleva dire che “non c’è alternativa”. E per rendere ancora più favorevole al capitale il corso delle stelle le élites borghesi si sono trovate in dono un vero e proprio patrimonio di pensiero e di retoriche, il neoliberismo, elaborato fin dal dopoguerra, che aveva tra i suoi esponenti resi prestigiosi dai premi Nobel, come Friedrick von Hayek e Milton Friedman. Quel pensiero, con le sue formule, il suo linguaggio, è diventato l’intelaiatura del pensiero unico, il nuovo aristotelismo della nostra epoca. Una risorsa, ahimè, anche per i partiti socialdemocratici e comunisti, che ne hanno assunto il linguaggio e la prospettiva, salvando se stessi come ceto politico dalla disfatta che nel frattempo si abbatteva sulla classe operaia e i ceti popolari.
Dunque un trionfo del capitale che non ha precedenti nella storia di questo modo di produzione e su cui in così pochi abbiamo riflettuto e studiato. Il primato del mercato, stabilito come superstizione universale, ha significato che la politica poteva solo restare a guardare le forze libere dei privati scatenarsi nell’agone mondiale. Nulla più di questo. Ma la rivoluzione tecnologica di questa fase ha anche visto nascere la “società dello spettacolo”, un sopramondo di inedita potenza manipolatoria, il “cuore dell’irrealismo della società reale” come l’ha definito Guy Debord, che ha consegnato al capitale la rappresentazione della realtà.
L’immaginario collettivo è finito nelle mani di schiere di manager, pubblicitari, intellettuali, esperti di marketing che ne veicolano e sublimano la mercificazione quotidiana. Essi decretano la passività dei cittadini ridotti a massa di consumatori di finzioni, mentre i detentori effettivi del potere televisivo decretano l’esistenza o l’inesistenza delle forze politiche. Se non si è parte dello spettacolo televisivo si è privi di presenza nel mondo reale. Rifondazione comunista e Potere al popolo non hanno alcun ruolo nello spettacolo e dunque le loro voci, per quanto gonfie di legittime denunce e di sdegno, non arrivano da nessuna parte.
In tale paesaggio di macerie – di cui son parte le divisioni a catena dei partiti comunisti superstiti – è evidente che l’interesse preminente di tali forze dovrebbe essere quello di non apparire come le truppe sbandate di un esercito sconfitto. Aprirsi a nuovi spazi di comunicazione, mostrarsi aperti a sperimentazioni con il vasto arcipelago dei movimenti della società civile. Ma anche essere disponibili ad alleanze con le forze politiche affini, indicare programmaticamente lo sforzo di volere unificare, mettere in contatto, fin dove possibile, le diversità che la soggettività individualistica dei nostri anni ha frantumato e disperso. La più grande aspirazione delle masse sconfitte è una qualche forma di unità delle forze che un tempo le proteggevano. Per Rifondazione comunista, Potere al popolo e Unione popolare rappresenta oggi la possibilità di percorrere questa strada. Ed è l’ultimo treno per la Finlandia.
* In foto: uno striscione presente alla manifestazione nazionale per la pace del 5 novembre 2022 a Roma, in un’immagine tratta dalla pagina Facebook di Unione popolare