Memorie di chi la Jugoslavia l'ha vissuta, in pace e in guerra, di chi ha sperimentato le conseguenze del conflitto, di chi vuole cambiare il suo Paese e di chi, invece, vuole solo scappare da quei luoghi, asfissiato da un futuro senza prospettive. Sono la materia prima della nuova opera di Andrea Caira, "Un tetto e due scuole", di cui vi proponiamo un estratto dedicato a come viene conservata la memoria della resistenza nella città bosniaca di Goražde

Dopo aver consumato la colazione mi dirigo verso il centro cittadino di Goražde. Attraverso nuovamente il ponte e raggiungo il corso dedicato a Zaim Imamović. La mia meta è il Centar za kulturu (Centro di cultura) della città: sede della biblioteca, dell’auditorium e dalla vecchia stazione di Radio Goražde. La struttura è un cubo di cemento con una delle facciate rivolta verso la Drina e un’altra verso il corso principale. Su questo lato c’è anche l’accesso a un bar mediamente frequentato che, almeno in queste giornate, passa della musica americana commerciale. All’interno qualche fotografia che ritrae la Goražde di una volta e poster a sfondo cinematografico. Il Centar, infatti, tra le sue varie offerte culturali proietta anche film che si possono gustare seduti su delle comode poltroncine rosse. Senza dubbio questo luogo rappresenta uno spazio d’aggregazione importante per la comunità locale, capace di condensare conoscenza e svago.

Un altro dei progetti del Centar interessa il versante pedagogico-espositivo. Dal 18 settembre del 2016 all’interno del Zavičajni muzej Goražde (Museo della patria di Goražde) è fruibile la mostra War exhibition. Un percorso espositivo che, partendo dagli oggetti di uso comune utilizzati (o creati) durante l’assedio, ha il duplice obiettivo di mantenere viva la memoria e di istruire le nuove generazioni sul passato recente. La mostra War exhibition in qualche maniera decostruisce il concetto stesso del monumento memoriale istituzionalizzato e riconduce la narrazione alle interpretazioni personali della guerra. La rievocazione del dramma non è sacralizzata e distante dai potenziali visitatori, ma è tangibile, reale, contemporanea.

Incontro Adi Džemidžić, storico, archeologo, cultore di musica metal e ricercatore al Centar. È uno dei ragazzi che ha curato la realizzazione del museo e che cerca attraverso il patrimonio cittadino di offrire linfa ed energie a Goražde. Adi è uno dei bambini di guerra, aveva sei anni quando è scoppiato il conflitto ed è riuscito a sopravvivere all’assedio. Non tutti i suoi coetanei hanno avuto la sua stessa fortuna. Davanti all’entrata principale del museo una piazzetta di recente installazione è tagliata in due da un muro di mattoni neri lucenti. Come per la targa dei partigiani sul ponte,

le scritte riportate sul dorso sono in bianco e in corsivo. È un’opera commissionata dall’amministrazione di Goražde e inaugurata nel 2013, dedicata alla memoria dei fanciulli morti durante il conflitto. Il muro è lungo una decina di metri e alto circa la metà. Sul lato fronte alla strada ci sono i nomi dei bambini uccisi dalla guerra; ne conto più di duecento. Sull’altro alcune scritte. «Non li hanno lasciati crescere», recita una di queste, «hanno sparato nel futuro, in occhi innocenti», sentenzia un’altra.

Entro nel Centar. Nell’atrio d’ingresso scorgo alcune fotografie del periodo comunista. Immortalano le vecchie attività del centro, si vedono degli attori sul palcoscenico sotto il tricolore jugoslavo con la stella rossa, bambini che corrono e donne in pose più o meno ricercate. Noto anche una pietra erratica dedicata allo scrittore locale Isak Samokovlija. Adi mi viene incontro. È un ragazzo alto, con i capelli biondi e lisci che arrivano a metà schiena. Li porta legati come un vecchio saggio indiano. Ha vissuto a Sarajevo durate il periodo universitario e ora è tornato in città per dare una mano.

Adi: «Ti voglio mostrare alcune opere di grande ingegno create dai cittadini di Goražde durante la guerra. Ecco, prendi in considerazione che tutte le zone intorno a Goražde erano occupate dai serbi: Foča era occupata, Čajniče era occupata, anche Rogatica era occupata. Quindi moltissimi dei profughi delle città circostanti vennero qui per cercare riparo. Prima della guerra, Goražde contava solo 27mila persone, durante l’assedio il numero si moltiplicò. In qualche maniera i rifugiati cercarono di difendere la città. Ora, di base immagina che non c’era nulla qui di cui vivere… quindi la gente si dovette inventare varie alternative: sia per difendersi che per creare gli strumenti d’apparente normalità. Vieni ti faccio vedere meglio (lo seguo lungo il corridoio del museo. Ci fermiamo davanti a una parete. Appese al muro alcune pistole, nda). Vedi, queste sono le prime armi che abbiamo creato per difendere la città… per difendere la libertà, insomma. Sono state fatte a casa, nei garage privati degli abitanti a partire dai tubi dell’acqua o anche dai tubi del gas delle cucine. Ma ci sono anche alcune pistole che hanno il calcio in legno. Diciamo che durante la guerra c’è stato un altissimo incentivo al riutilizzo degli oggetti…»

Andrea: Quindi la gente metteva a disposizione tubi e altro per la comunità?

Adi: Sì, sì. Diciamo che quando un tubo si rompeva o magari una casa veniva colpita dalla guerra e data alle fiamme, il proprietario cercava di mettere in salvo gli oggetti che sarebbero stati potenzialmente utili per la causa comune. Questo, invece, be’, diciamo che è una specie di cucinotto improvvisato: poteva servire per riscaldare il pane o qualche pietanza. Anche questa installazione è creata con pezzi di fortuna, anche provenienti da motori di vario genere.

Andrea: Incredibile…

Adi: Sì, davvero…

Andrea: E invece queste armi esposte, come le avete recuperate? Sono un regalo da parte della popolazione o cosa?

Adi: Sì, diciamo che abbiamo chiesto agli abitanti un piccolo sostegno quando abbiamo iniziato a concepire questo museo. Insomma, abbiamo detto alla gente che volevamo fare una mostra sulla guerra e abbiamo chiesto loro di donare alcuni oggetti che gli ricordassero quel periodo… e la gente è stata entusiasta! Le persone hanno capito il senso del lavoro… poi erano anche orgogliosi di quello che avevano fatto.

Andrea: Quando è stato inaugurato il museo?

Adi: 2016… Questa invece (mi indica con il dito una torcia da bosco in stile anni Ottanta, dalla forma simile a una calcolatrice e con il vetro largo che occupa la parte superiore. Saldata al retro della torcia c’è una piccola scatola metallica apribile dall’alto. Dal lato destro fuoriesce una manipola rossa, nda), era una maniera basica per fare luce in assenza di elettricità. Ecco, una maniera alternativa per illuminare le stanze. Dietro questa lampadina era stata montata una dinamo, così che per poter illuminare bastava girare la manopola. In questa teca, invece, c’è quel che rimane di una candela a benzina che funzionava tramite un dispositivo meccanico. Ecco, questo, è… (sogghigna) diciamo un quaderno delle elementari. Vedi, ci sono i calcoli di algebra e di altre materie. In realtà sono vari fogli uniti semplicemente da alcuni fili di metallo… sono tutti espedienti per provare ad avere una vita normale diciamo…

 


Il libro
Memorie di chi la Jugoslavia l’ha vissuta, in pace e in guerra, di chi ha sperimentato le conseguenze del conflitto, di chi vuole cambiare il suo Paese e di chi, invece, vuole solo scappare da quei luoghi, asfissiato da un futuro senza prospettive. Sono la materia prima della nuova opera di Andrea Caira, Un tetto e due scuole, da poco in libreria per Tab edizioni. Caira è un ricercatore indipendente di storia contemporanea e si occupa di storiografia della memoria tra l’Italia e la Bosnia-Erzegovina. Collabora con varie realtà editoriali, sia cartacee che digitali, ed è attivo in diversi progetti di valorizzazione del patrimonio immateriale. È co-autore del volume La resistenza oltre le armi. Sarajevo 1992-1996 (Mimesis edizioni, 2021).

Dalla postfazione di Un tetto e due scuole, a cura di Antonio Canovi:
Andrea Caira si muove nel paesaggio della Bosnia alla maniera ostinata di un novello El Quijote. Scruta fantasmi di pace mentre cammina nell’assedio dei segni di guerra. Annoda i capi della storia alla geografia di una nazione perduta. L’erranza sembra corrispondere nell’autore a una postura ontologica, come tale non fine a se stessa: questo viaggio nutre l’ambizione di restituire ad ogni approdo nominale la consistenza geostorica di luogo (…) Registratore alla mano, Andrea osserva, incontra, intervista e si fa intervistare. Non s’arrende all’evidenza di quanto gli si viene narrando, della guerra che continua a scavare l’odio nelle teste e nutre futuri separati. Gli intervistati che ci vengono fatti incontrare, donne e uomini, appartengono a generazioni distinte e tuttavia sono ancora compresi nel medesimo incantesimo: la dissoluzione della Jugoslavia.

 

* In foto, il monumento ai caduti della guerra a Goražde. Julian Nyča, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons