Non si spegne la polemica sull'uscita del ministro della Cultura, Sangiuliano. L’uso delle categorie moderne di destra e di sinistra è anacronistico, oltre che scorretto. L’autrice ricorda allora la lezione di Antonio Gramsci che diffida dei “professori rimminchioniti che si fanno delle religioni di un qualche poeta o scrittore e ne celebrano degli strani riti filologici”

Grande scalpore ha suscitato la rivendicazione del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, secondo il quale Dante, con Machiavelli e Gramsci tra gli autori italiani oggi più tradotti al mondo, è «il fondatore del pensiero di destra in Italia». Per il suo significato e le implicazioni nell’attualità del nostro Paese e non solo, l’apodittica affermazione merita di essere sommariamente articolata dal punto di vista culturale e politico.
L’uso delle moderne categorie di destra e sinistra, affermatosi a partire dalla rivoluzione francese, su cui peraltro Norberto Bobbio nel 1994 scrisse lo storico saggio che individua nell’uguaglianza la netta discriminante della distinzione, è certo anacronistico. Ma se ci avvaliamo dei termini di conservatore e progressista, o addirittura di reazionario e rivoluzionario, evocatori di concetti antichi quanto la strutturazione in classi della società, il risultato non è molto diverso.

Si tratta solo di intenderci, e di prendere atto che comunque il ministro ha voluto chiarire l’origine medievale del pensiero della destra, che si affermò al volgere del Trecento con il tramonto dell’età comunale e l’avvento delle signorie. Proprio allora Dante sollecitava l’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo a scendere in Italia per reprimere la ribellione dei guelfi fiorentini, restaurando il Sacro romano impero, come per primo lo definì Federico Barbarossa. E nell’ultimo capitolo della Monarchia ribadiva che in caso di dissenso, l’autorità temporale doveva comunque sottomettersi alla suprema autorità spirituale del papa. Il concetto fu ribadito ancora da Benedetto XV nel 1921, tra la nascita del Partito comunista d’Italia e la marcia su Roma di Mussolini.

Nell’enciclica In Praeclara Summorum per il sesto centenario della morte del poeta, il papa elevava Dante a guida morale, sociale e politica dell’Europa uscita dalla guerra mondiale per il tesoro di verità dottrinali contenuto nel suo poema, mirando ad una riappropriazione del terreno perduto dalla Chiesa nel 1870.

Certamente Alessandro Manzoni, quando nel 1867 fu chiamato dal ministro della Pubblica Istruzione, Emilio Broglio, ad esporre la sua posizione sulla lingua dell’Italia unificata e sui mezzi per diffonderla, esprimeva le posizioni della borghesia cattolica illuminata, già presenti in tutta la sua produzione letteraria. Da allora la lettura curricolare nei licei dei suoi Promessi sposi, preceduta dall’Eneide di Virgilio, poema celebrativo delle origini dell’impero romano, seguìta dallo studio triennale delle tre cantiche della Divina Commedia, obbedì al disegno di formare la classe dirigente del nostro Paese. La redazione finale del “romanzo della Provvidenza”, sottoposto alla sciacquatura dei panni in Arno, non faceva che ribadire che la lingua da insegnare nelle scuole italiane dopo la breccia di Porta Pia era nel solco di quella indicata nel Cinquecento da Pietro Bembo con le Prose della volgar lingua, e poi sancita dal Vocabolario dell’Accademia della Crusca. I modelli continuavano ad essere le “tre corone” toscane: Boccaccio, Petrarca e, con il Risorgimento, soprattutto Dante, che alla questione della lingua “del sì” aveva dedicato il primo trattato della storia.

Nel De Vulgari Eloquentia, scritto quando si accinse alla composizione della Commedia, il poeta fiorentino riconobbe il primato cronologico dei siciliani della corte di Federico II e di Manfredi nella poesia d’amore in lingua volgare, che immaginò escogitata per parlare a una donna ignara del latino. Ma sulla questione della lingua espresse in modo decisivo la propria vocazione pedagogica e morale cristiana pienamente conquistata.
La «pantera profumata», ovvero la lingua ideale della poesia d’amore che invano aveva cercato nella rassegna dei dialetti delle regioni italiane, non fu da lui rintracciata. Così il Sommo poeta decise di rivolgersi ad un metodo “più razionale”, filtrando e risemantizzando il lessico volgare delle origini alla luce del latino dei padri e dei teologi cristiani medievali, da Agostino a Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio. Parole chiave della poesia d’amore siciliana e stilnovista come “desiderio”, “mercede”, “grazia”, “saluto/e” assumono, in particolare nelle ultime due cantiche del Poema sacro, significati totalmente diversi, spirituali. Nel Canto XXVI del Purgatorio il poeta Guido Guinizzelli, che là purga la propria lussuria, per definire il “peccato ermafrodito” usa il termine appetito, assimilandolo esplicitamente a quello delle bestie.

La Divina Commedia è il grande poema di ispirazione divina che racconta la storia di una conversione dalla “selva oscura” del peccato, di un traviamento morale e intellettuale insieme. Il viaggio di pentimento ed espiazione alla conquista della salvezza eterna è compiuto con il corpo attraverso i primi due regni sotto la guida di Virgilio, e nel Paradiso con la guida di Beatrice, fino alla visione suprema. Ragione e fede si compongono nell’itinerario verso Dio. A Guido Cavalcanti, che era stato maestro di poesia d’amore per la donna ed ex amico, autore di “Donna me prega”, la più bella canzone dottrinale ed estrema sintesi del pensiero del filosofo arabo Averroè sull’amore-passione naturale, Dante sostituisce la guida di Virgilio. Il poeta augusteo del pius Aeneas era infatti considerato nel Medio Evo un profeta del cristianesimo in virtù di un’ecloga in cui celebrava la nascita di un bambino (in realtà figlio del suo protettore Asinio Pollione) che avrebbe segnato l’inizio di una nuova era. Quanto a Beatrice, la donna amata da Dante, la morte prematura e la trasformazione in guida al Paradiso come “figura” di Cristo diventeranno un tópos della letteratura occidentale, a partire da Petrarca.

Guido – mai nominato da Dante per cognome – è destinato, come tutti «color che l’anima col corpo morta fanno», al cerchio infernale degli eretici: in una bella novella del Decameron Boccaccio, autore peraltro di una magistrale Vita di Dante, conferma che tra gli amici girava voce che fosse ateo e che si impegnasse molto nella dimostrazione della non esistenza di Dio. Esiliato da Firenze nel fatidico anno 1300 con un provvedimento firmato in veste di Priore anche da Dante, Cavalcanti morirà di malaria due mesi dopo. L’ombra della sentenza pronunciata nei confronti del compagno di ricerca non solo poetica, ma anche filosofica, sarà presente in tutto il Poema sacro, come a un lettore attento non sfuggirà. Con quell’ombra, allo stesso tempo ragione di polemica e matrice di poesia, Dante farà i conti fino alla fine.

Non stupisce quindi che Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere dedichi al Canto X dell’Inferno un’analisi originale, che intende essere esemplare di un metodo critico dichiaratamente diverso da quello “estetizzante” di Benedetto Croce (Q 4, 78-87). E che Guido Cavalcanti sia ricordato come massimo interprete di quella civiltà eretica comunale del Duecento, che «se indeboliva nelle masse l’ossequio all’autorità ecclesiastica, diventava nei pochi un aperto distacco dalla “romanitas”». Inoltre, originale studioso della questione della lingua come strumento di egemonia culturale, Gramsci considera il poeta stilnovista come «massimo fra quegli intellettuali» consapevoli della «discontinuità storica» col pensiero teocratico medievale, che scegliendo il volgare come nuova lingua della poesia, appunto, «pretendono di essere colti senza leggere Virgilio» (Q 7, 68).

Per quanto riguarda Dante, il bilancio più sintetico del pensiero gramsciano si legge in una nota del Quaderno 6 su Dante e Machiavelli: «Che, per l’importanza avuta da Dante come elemento della cultura italiana, le sue idee e le sue dottrine abbiano avuto efficacia di suggestione per stimolare e sollecitare il pensiero politico nazionale, è una quistione: ma bisogna escludere che tali dottrine abbiano avuto un valore genetico proprio, in senso organico. […] Direi che Dante chiude il Medio Evo (una fase del Medio Evo), mentre Machiavelli indica che una fase del Mondo Moderno è già riuscita a elaborare le sue quistioni e le soluzioni relative. Pensare che Machiavelli geneticamente dipenda da Dante è uno sproposito madornale. Tra il Principe del Machiavelli e l’Imperatore di Dante non c’è connessione genetica, e tanto meno tra lo Stato Moderno e l’Impero medioevale. Il tentativo di trovare una connessione genetica tra le manifestazioni intellettuali colte italiane delle varie epoche, costituisce appunto la “retorica” nazionale: «la storia viene scambiata con larve della storia» (Q 6, 85). Ma fulminante, nella polemica in corso, sembra quanto dal carcere di Turi nel giugno 1931, mentre la stesura delle note dantesche è in corso, scrive alla moglie russa Giulia Schucht a proposito della precoce passione per la lettura del figlio primogenito: «Ora prevedi che egli leggerà Dante addirittura con amore. Io spero che ciò non avverrà mai, pur essendo molto contento che a Delio piaccia Puškin e tutto ciò che si riferisce alla vita creativa che sbozzola le sue prime forme. D’altronde, chi legge Dante con amore? I professori rimminchioniti che si fanno delle religioni di un qualche poeta o scrittore e ne celebrano degli strani riti filologici». Parole nette e inequivocabili, di cui tenere conto.

Noemi Ghetti è storica, scrittrice e autrice di numerosi saggi. Tra i suoi libri segnaliamo L’ombra di Cavalcanti e Dante (2010) e Gramsci nel cieco carcere degli eretici (2014). Entrambi per L’Asino d’oro editore

In apertura una illustrazione di Marilena Nardi

Prosegue il dibattito su Left a proposito di Dante ascritto alla destra dal ministro della Cultura, Sangiuliano. Per approfondire, ti potrebbe interessare anche Dante fondatore di destra? Quante fandonie degli specialisti di Dante Simone Marchesi (Università di Princeton) e Akash Kumar (università di Berkley)