Reportage da Sidone, mentre il Paese è in una grave crisi economica, sociale e istituzionale che colpisce soprattutto i più deboli, di cui tantissimi rifugiati. E fa riemergere l'incubo della grande carestia del Monte Libano degli inizi del Novecento

Cammini per le strade di Sidone (Saida in arabo) e all’odore di mare e della pesca si accosta quello dei rifiuti rovistati. Freschi, umidi e “sbudellati” come le carcasse di animali che giacciono sottosopra sui banchi del mercato della carne. È un mondo, questo di Sidone, nel Sud del Libano, tutto rivoltato. Dove i bambini non vanno a scuola perché sono costretti a chiedere l’elemosina per strada, e dove le scuole si svuotano anche degli insegnanti che uno dopo l’altro emigrano chissà dove. Nelle strade, le macchine senza carburante sono parcheggiate in eterno e al traffico di auto si sostituiscono gruppi di studenti che camminano e che non hanno di che studiare, e genitori rinsecchiti dalla fame che non hanno di che lavorare, e sì, anche gruppi di turisti inebetiti che fotografano e fotografano pur non avendo di che fotografare.

Così capita di sedersi ad un falafel bar, ignorando il peso dell’inflazione che schiaccia chi ti circonda. Cambiare dollari scintillanti al mercato nero significa scoprire che il tasso di cambio non ufficiale è di uno a sessantamila lire libanesi. Uno a sessantamila. Appena venti giorni fa era a uno a 42mila, e per la pelle che indossi, per la lingua che parli, ti credono una milionaria. E capita anche che si avvicini una bambina che chiede your leftovers, i tuoi avanzi. Questa è l’immagine che rappresenta la situazione che adesso sta vivendo la popolazione, l’agonia di interi villaggi del Libano: bambini affamati attorno ai cassonetti, che si contendono avanzi di cibo con i topi.

Una situazione che il 3 gennaio Save the children ha denunciato: in Libano, se non verranno prese misure urgenti, il numero dei bambini che soffrono la fame aumenterà del 14% all’inizio di quest’anno. Secondo l’organizzazione internazionale che lavora nel Paese del Medio Oriente dal 1953, quattro bambini rifugiati libanesi e siriani su 10 stanno affrontando un’insicurezza alimentare acuta elevata.

Tutto questo fa affiorare drammaticamente il passato. È il ripetersi della Maja’at Lubnan, la Grande carestia del Monte Libano. La storia collettiva, l’evento trascorso che per orrore dell’oblio si insinua nella vita presente. Nella vita pressante degli ultimi. Durante la Prima guerra mondiale, la burocrazia ottomana e un’invasione di locuste causarono sulle alture libanesi una carestia di proporzioni spaventose, che in soli due anni uccise – letteralmente di fame – non meno di 200mila persone. Cinquantamila in più di quelle vittime che avrebbero causato tutte le guerre subite tra il 1975 e il 1989 – compresa l’invasione israeliana del 1982. In tutta la Siria, che allora includeva il «distretto del Libano», il numero di morti stimati raggiunse i 350mila, su una popolazione che allora contava meno di quattro milioni. Era il 1917 e gli Alleati imposero un embargo sul Levante per lasciare le truppe turche nemiche in Palestina e nella Siria che allora includeva il distretto del Libano a corto di rifornimenti. Ma i turchi requisirono il cibo di cui avevano bisogno, lasciando la popolazione civile a deperire, ad agonizzare, a spegnersi lentamente nella fame.

Oggi un albero memoriale realizzato dall’artista Yazan Halwani, non lontano da dove sei decenni più tardi si sarebbe auto-tracciata la frontiera della guerra civile, nella capitale, sorge in memoria delle vittime della Grande carestia. Sulle foglie di rame i versi di Khalil Gibran, Tawfik Yousef Awwad, Anbara Salam Al-Khalidi e molti altri. Ecco alcuni versi di Gibran: «La mia gente è morta di fame / in una terra ricca di latte e miele / è morta perché si sono levati i mostri dell’inferno / e hanno distrutto tutto ciò che i suoi campi producevano». L’invasione di locuste. «È morta perché le vipere e / la prole delle vipere hanno sputato veleno / nel luogo in cui i Sacri Cedri / e le rose e il gelsomino emanano il loro profumo». Gli eserciti stranieri occupanti e famelici ingordi smaniosi.

Anche quella di inizio Novecento era un’epoca di enormi migrazioni. Decine di migliaia di persone, come l’autore di questi versi si erano autoesiliati in America per sfuggire alle avversità degli anni immediatamente precedenti lo scoppio della Grande Guerra. Molti dei nomi non europei tra i passeggeri di terza classe che annegarono sul Titanic erano, infatti, libanesi. Eppure le migrazioni non avvenivano solo dal Libano: ma anche verso il Libano, come quella degli armeni scampati al genocidio turco, che ancora oggi abitano il quartiere di Burj Hammoud, a Nord Est di Beirut, raggruppati secondo le città e i villaggi d’origine. Un armeno la cui famiglia proviene da Erzurum o Kars vive vicino ad altri armeni i cui genitori nonni o bisnonni provenivano dalle stesse città; proprio come i palestinesi di Haifa o di ‘Akka, nei campi profughi vivono accanto a quelli le cui case, in Palestina, si trovavano negli stessi quartieri, a volte persino nelle stesse strade. Ci furono gli armeni e ci furono i palestinesi e ci furono le Guerre del Golfo e arrivarono gli iracheni, e poi un giorno, nel mezzo di una crisi economica che iniziava a farsi irreversibile, ci fu il milione e mezzo di siriani che oggi rappresentano un quarto della popolazione libanese, e che al 99% vivono in condizioni di povertà estrema, e che molto probabilmente al mattino si vestono di carità.

E infine, alla situazione economica disastrosa, all’inflazione schizzante, all’incremento del prezzo della benzina, in Libano adesso si aggiunge il vuoto politico causato dalle dimissioni dell’ex Presidente della repubblica Michel Aoun, avvenute lo scorso 30 ottobre, sulla scia dell’instabilità che il Paese sta attraversando da più di tre anni. Nell’ottobre del 2019, la gioventù libanese era scesa in piazza a protestare contro un sistema politico corrotto e stagnante in un confessionalismo non più rappresentativo: e se non bastarono le repressioni delle forze dell’ordine a inibire il dissenso, lo shock – la paralisi – l’avrebbe causata l’esplosione del 4 agosto 2020 al porto di Beirut, in cui morirono 250 persone e più di seimila rimasero ferite. In difesa della giustizia per le vittime di quell’esplosione, il 26 gennaio centinaia di manifestanti si sono riuniti alle porte del palazzo di giustizia, appresa la decisione della Corte di affossare le indagini e rilasciare i 17 responsabili indagati. Qualcuno tra gli imputati ormai scarcerati ha già lasciato il Paese, in questo Libano capovolto in cui se fai parte dell’élite puoi comprarti la libertà, e se non hai niente ti lasciano deperire insieme ai topi sul bordo delle strade.

L’autrice: Valeria Rando è una ricercatrice italiana in Libano

Nella foto: bambini siriani rifugiati (Khaled Akacha, particolare)