La guerra in Ucraina è stata definita come “unprovoked aggression” “aggressione non provocata” tradotto anche con “c’è un aggredito e un aggressore”. Tre intellettuali e accademici americani, John Mearsheimer, Jeffrey Sachs e Noam Chomsky, da prospettive culturali e ideologiche diversissime, ma ragionando da persone di grande intelligenza e cultura quali sono, hanno demistificato questa narrazione. Questa è tra l’altro, la grandezza dell’America, dove si possono trovare posizioni critiche della narrazione del governo senza passare per essere putiniani o altre sciocchezze del genere: da questo punto di vista anni luce avanti a noi europei.
John Mearsheimer, professore scienze politiche all’Università di Chicago, in maniera molto raffinata, inquadra il problema nella sua teoria delle relazioni internazionali sul comportamento delle grandi potenze nota come “realismo offensivo”. Mearsheimer già nel 2014 ha scritto un importante articolo dal titolo auto-esplicativo Perché la crisi ucraina è colpa dell’Occidente in cui ha anticipato gli eventi spiegandone in dettaglio le ragioni: «Gli Stati Uniti e i loro alleati europei condividono la maggior parte della responsabilità della crisi [ucraina]. La radice del problema è l’allargamento della Nato». E «i leader russi hanno ripetutamente detto che vedono l’adesione dell’Ucraina alla Nato come una minaccia esistenziale che deve essere impedita». Le ragioni per questa posizione sono varie: dalle radici storiche che legano la Russia all’Ucraina, al fatto che la Crimea, da sempre appartenuta alla Russia che lì ha una importante base navale, rappresenta l’imprescindibile sbocco sul Mar Nero. Una famosa lezione del 2015 di Mearsheimer in cui spiega il suo pensiero sulla crisi ucraina ha ricevuto quasi 30 milioni di visualizzazioni.
Jeffery Sachs, ora direttore del Centro di sviluppo sostenibile della Columbia University, è stato protagonista in questa vicenda sin dagli anni Novanta, quando era il giovane economista brillante consigliere del governo polacco, dell’Urss di Gorbaciov prima e della Russia di Eltsin dopo, ed infine anche del governo ucraino. La sua missione era strutturare la transizione all’economia di mercato capitalistica. I metodi di Sachs di stabilizzazione dell’economia sono diventati noti come “shock therapy” e la sua azione è stata fortemente criticata per la spinta alla privatizzazione delle aziende pubbliche, una strategia che ha aperto le porte agli oligarchi e al disastro economico della Russia degli anni Novanta.
Naomi Klein, nel suo libro Shock Economy, lo critica in maniera spietata. La critica della Klein è condivisibile anche se per la Russia ci sono state delle condizioni politiche e finanziarie diverse dalla Polonia e fuori il controllo dello stesso Sachs.
Sachs è sempre stato un economista neoliberale per la sua fiducia nel potere regolatorio del mercato, ma anche, politicamente un liberal. Accademico intellettualmente onesto che non ha mai rinnegato le sue idee né in economia né, tanto meno, in politica diventando una delle voci più critiche della politica del governo americano dai tempi di Clinton e Bush junior. Sachs ricorda che l’idea di espandere l’alleanza militare americana all’Ucraina e alla Georgia per circondare la Russia e la regione del Mar Nero risale infatti alla seconda metà degli anni Novanta.
Secondo l’economista statunitense l’origine della guerra e di questa crisi geopolitica va identificata proprio in quegli anni quando la Nato violò l’accordo che aveva preso con Gorbaciov che non si sarebbe espansa di “un solo dito verso est”.
Noam Chomsky è invece un linguista che ha insegnato al MIT e universalmente noto per la sua critica alla politica esterna degli Usa e l’analisi del ruolo dei mass media nelle democrazie occidentali che lo hanno reso uno degli intellettuali americani più noti e ascoltati al mondo. «Il termine ‘non provocata’ è piuttosto interessante se si considera che non è mai stato usato in passato… Se si fa una ricerca su Google per invasione non provocata si ottengono un paio di milioni di risultati per l’invasione non provocata dell’Ucraina, provate a cercare l’invasione non provocata dell’Iraq. …. In realtà non è mai stata usata prima e qualsiasi psicologo può spiegare esattamente cosa sta succedendo il motivo per cui si insiste a chiamare l’invasione non provocata è che si sa benissimo che è stata provocata. In realtà ci sono ampie provocazioni che risalgono agli anni Novanta, come ho già detto. Non è la mia opinione, è l’opinione di quasi tutti i vertici della diplomazia americana. Naturalmente provocato non significa giustificato. D’altra parte, l’invasione statunitense dell’Iraq che è stata molto peggiore dell’invasione russa dell’Ucraina, non si può dire che sia stata del tutto immotivata, non c’è stata alcuna provocazione per l’invasione dell’Iraq, c’è invece tanta provocazione per l’invasione russa dell’Ucraina. Sono entrambi casi di aggressione criminale, indipendente dalla provocazione, ma è molto interessante e ci dice molto sulla propaganda il modo in cui l’espressione “invasione non provocata” sia diventata non solo popolare ma quasi essenziale nell’ultimo anno anche se tutti sanno che è un’assurdità totale, è un modo per cercare di enfatizzare e far sì che le persone non prestino attenzione a ciò che è successo».
Questa linea rossa, la neutralità dell’Ucraina e della Georgia, era nota all’alta diplomazia statunitense fin dall’avvertimento di George Kennan, diplomatico statunitense e attento osservatore delle relazioni internazionali, famoso per aver previsto il crollo dell’Unione Sovietica. Meno noto è il suo avvertimento nel 1948 che nessun governo russo avrebbe mai accettato l’indipendenza dell’Ucraina. Kennan scrisse che «espandere la Nato sarebbe il più fatale errore della politica Usa nell’era post-guerra fredda», poiché «riporterà l’atmosfera della guerra fredda nei rapporti Est-Ovest, e spingerà la politica estera russa in direzioni decisamente non di nostro gradimento».
Insomma, malgrado fosse chiaro a «quasi tutti i vertici della diplomazia americana» che questa politica avrebbe indotto tensioni crescenti con la Russia, Clinton prima e Bush jr dopo perseguirono l’espansione della Nato verso i paesi ex-comunisti. A quell’epoca la Russia era troppo debole per potersi opporre, e così molti paesi dell’Europa orientale sono entrati nella Nato.
Poi nella Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007 Putin ha chiarito che la linea rossa per la Russia era che la Georgia e l’Ucraina rimanessero neutrali. L’argomento era che i russi non volevano missili balistici in Ucraina e Georgia: «Emerge il fatto – disse Putin-che la Nato ha posto le sue forze di prima linea ai nostri confini, mentre noi continuiamo a rispettare rigorosamente gli obblighi del trattato e non reagiamo affatto a queste azioni. Penso sia ovvio che l’allargamento della Nato non abbia alcuna relazione con la modernizzazione dell’Alleanza stessa o con la necessità di garantire la sicurezza in Europa. Al contrario, rappresenta una grave provocazione che riduce il livello di fiducia reciproca. E noi abbiamo il diritto di chiederci: contro chi è destinata questa espansione? E che fine hanno fatto le assicurazioni fatte dai nostri partner occidentali dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia? Nessuno le ricorda nemmeno».
L’espansione verso l’Ucraina non era dunque accettabile per i russi. Giusto o sbagliato che fosse, tutti lo sapevano e quindi non solo non era impossibile evitare la guerra ma era necessario farlo con una accorta politica che avesse preso in considerazione le ragioni dei russi per la determinazione di un quadro di sicurezza europeo condiviso e quelle degli ucraini per rendere per loro positivo il ruolo di stato cuscinetto tra Unione Europea e Russia. L’accordo di Minsk riguardava proprio questo aspetto, insieme con lo status delle Repubbliche del Donbass dove la maggioranza della popolazione è russofona. Le ragioni della guerra, le provocazioni, come dice Chomsky, erano dunque sul tavolo dagli anni Novanta e tutti ne erano a conoscenza. Tuttavia, la scommessa degli Stati Uniti era che la Russia non avrebbe osato reagire perché si trovava in una posizione di “lose-lose”. Perdere se l’invasione non fosse avvenuta, perché in quel caso avrebbe avuto il rischio che la Nato installasse missili balistici a cinque minuti da Mosca e di perdere il controllo della Crimea e con essa l’accesso al Mar Nero. Perdere perché se l’invasione fosse avvenuta, la decennale “guerra del gas” sarebbe stata persa e, con essa le maggiori entrate economiche della Russia. Inoltre, l’esercito ucraino avrebbe potuto essere abbastanza forte da fermare l’invasione con il supporto della Nato e degli effetti delle sanzioni. Per quanto riguarda la guerra del gas: la Russia ha enormi risorse energetiche di cui l’Europa ha necessità. Per questo sin dagli anni Ottanta si è pensato di sviluppare il gasdotto Trans-Siberiano per portare il gas estratto dai giacimenti siberiano all’Europa, progetto che già allora aveva suscitato l’ostilità degli Stati Uniti per motivi geopolitici.
Più recentemente, lo stesso Biden aveva chiarito prima del 24 febbraio 2022 che nel caso la Russia avesse invaso l’Ucraina, il gasdotto Nord Stream, il collegamento energetico ed economico tra Russia ed Europa, sarebbe stato, “in qualche modo”, interrotto. Questa era dunque la scommessa degli Stati Uniti, che inglobare l’Ucraina nella Nato sarebbe stato possibile perché la Russia non avrebbe avuto la forza e l’interesse di reagire. Crediamo che non abbia funzionato per due motivi. La Russia è stata in grado di costruire legami economici con altri Paesi e dal 2014 ha lavorato per avere un esercito abbastanza forte da poter fronteggiare in una guerra convenzionale non solo l’esercito ucraino, un anno fa uno dei meglio addestrati ed armati in Europa, ma la stessa Nato.
Come spiega John Mearsheimer l’espansione della Nato in Ucraina era vista dalla Russia, e non da Putin solamente come fosse un despota fuori controllo, come la più importante minaccia esistenziale: queste sono le radici della guerra.
Purtroppo, ed è questo il motivo di tanta preoccupazione per il momento che stiamo attraversando, sembra ora che la guerra, per una sorta di eterogenesi dei fini, sia diventata una minaccia esistenziale anche per gli Stati Uniti e di conseguenza per l’Europa che è vieppiù dipendente da quest’ultimi. Non perché direttamente coinvolti nel conflitto, al momento ancora indirettamente anche se questa posizione si logora ogni giorno che passa avvicinandosi così il momento in cui gli eserciti Nato interverranno sul terreno, ma per le ripercussioni internazionali di carattere politico e economico. Il fatto che la Russia abbia resistito alle sanzioni ed anzi abbia ampliato i suoi legami economici e politici con paesi di grande importanza come la Cina, l’India, l’Iran e molti altri sta mettendo in seria crisi l’intero ordine internazionale. Per comprendere come la partita che si gioca in Ucraina possa ripercuotersi sull’ordine internazionale è sufficiente fare una proiezione: quale sarà la situazione tra sei mesi o un anno se la Russia occupasse del tutto le provincie russofone dell’Ucraina e instaurasse un governo “amico” in quel che rimane dell’Ucraina occidentale? Sarebbe venuto meno non solo il legame tra Russia ed Europa, scambio di tecnologia per energia a basso costo, ma lo stesso predominio degli Stati Uniti nella politica e nell’economia internazionali. Se una debacle militare comporta le chiare conseguenze di un duro colpo al mito dell’invincibilità dell’alleanza atlantica, vi sono delle motivazioni ancora più profonde.
Uno degli effetti collaterali, non previsti né voluti, della deregolamentazione del sistema economico globale è stato rendere le tensioni geopolitiche estremamente più acute. Gli Stati Uniti, e con essi il Regno Unito e altri Paesi occidentali, hanno accumulato ingenti debiti verso l’estero, mentre la Cina, altri Paesi orientali, e in parte anche la Russia, sono in una posizione di credito verso l’estero. Un’implicazione di questo squilibrio è la tendenza a esportare capitale orientale verso l’Occidente, non più soltanto sotto forma di prestiti ma anche di acquisizioni: uno spostamento cioè del capitale in mani orientali. Gli Stati Uniti, che avevano un debito pubblico del 31% del PIL nel 1971 sono passati a uno del 132% oggi e un debito netto verso l’estero di oltre 14 mila miliardi di dollari pari al 65% del PIL. Questo debito è stato sostenibile solo grazie al ruolo centrale che ha il dollaro negli scambi a livello internazionale ma rende l’economia statunitense sempre più fragile e condizionata dagli interessi dei creditori. Per questa ragione, sono oggi gli Stati Uniti, già promotori della globalizzazione, a richiedere una chiusura protezionista sempre più accentuata nei confronti delle merci e dei capitali provenienti da Cina, Russia e gran parte dell’Oriente non allineato. È questa criticità nell’equilibrio economico mondiale che rende pericoloso questo momento storico: la guerra è vista come una minaccia esistenziale non solo dalla Russia ma anche dagli Stati Uniti: nessuno si può permettere di perderla.
Per avviare un realistico processo di pace, è oggi dunque necessaria una non solo ridisegnare un quadro di sicurezza europeo condiviso che tenga conto delle istanze della Russia, ma è necessaria anche una iniziativa di politica economica internazionale. Come recita l’appello promosso da promosso dagli economisti Emiliano Brancaccio e Robert Skidelsky e apparso sul Financial Times del 17 febbraio 2023: «Occorre un piano per regolare gli squilibri delle partite correnti, che si ispiri al progetto di Keynes di una international clearing union. Lo sviluppo di questo meccanismo dovrebbe partire da una duplice rinuncia: gli Stati Uniti e i loro alleati dovrebbero abbandonare il protezionismo unilaterale del “friend shoring”, mentre la Cina e gli altri creditori dovrebbero abbandonare la loro adesione al libero scambio senza limiti. Siamo consapevoli di evocare una soluzione di “capitalismo illuminato” che venne delineata solo dopo lo scoppio di due guerre mondiali e sotto il pungolo dell’alternativa sovietica. Ma è proprio questo l’urgente compito del nostro tempo: occorre verificare se sia possibile creare le condizioni economiche per la pacificazione mondiale, prima che le tensioni militari raggiungano un punto di non ritorno».