Intensi e originali i suoi ritratti di persone che contestavano il sistema costituito con i quali instaurava rapporti di complicità e amicizia. La mostra CHRONORAMA. Tesori fotografici del XX secolo a Palazzo Grassi a Venezia invita a riscoprirne il talento

«Buñuel  faceva film per mostrare che questo non è il migliore dei mondi possibili. Arbus faceva fotografie per mostrare qualcosa di più semplice: che esiste un altro mondo», osservava Susan Sontag in Sulla fotografia (1977).
Sono trascorsi cento anni dalla nascita di Diane Arbus, la straordinaria cacciatrice di immagini – come l’aveva definita il fotografo Walker Evans – che aveva scelto di rivolgere il suo obiettivo verso gli individui ai margini della società, gli outsider, i diversi. Proprio per questo sarebbe stata etichettata come «la fotografa dei freaks», un appellativo che lei odiava, ma che non sarebbe mai riuscita a cancellare.
Diane Nemerov, nasce a New York il 14 marzo 1923, da una ricca famiglia ebrea di origini russe proprietaria dei grandi magazzini Russek’s sulla Fifth Avenue, a New York.
L’incontro con quello che diventerà suo marito, Allan Arbus, fotografo dell’esercito americano, avvenne quando lei era giovanissima, a soli 14 anni.
A 18 anni Diane ricevette la sua prima macchina fotografica (una Graflex), subito dopo il matrimonio: all’inizio lavora come assistente di suo marito, ma in seguito, grazie agli insegnamenti di Berenice Abbott, di Aleksej Česlavovič Brodovič e soprattutto di Lisette Model, affinò la tecnica e intraprese la sua strada nel mondo della fotografia.
Fu anche grazie a Model, con cui studiò dal 1956 al 1957, che delineò una propria visione e uno stile personale. Diane Arbus così trovò il coraggio di fotografare i soggetti che più le interessavano: tra il 1957 e il 1960 frequentò  l’Hubert’s Museum, un baraccone situato tra la 42sima e Broadway, dove si esibivano i cosiddetti “freaks”. Intanto il suo matrimonio andava in crisi.

DIANE & ALLAN ARBUS, Kathy Slate with doll in baby carriage, 1953, Vogue © Condé Nast (foto della mostra CHRONORAMA. Trésors photographiques du 20e siècle)

Dopo la separazione dal marito incontrò il distributore cinematografico Emile De Antonio, che le fece conoscere il film Freaks di Tod Browning (1932). In quegli anni la fotografia della Arbus assume diverse declinazioni: dai ritratti di persone che contestavano il sistema costituito con i quali instaurava rapporti di complicità e amicizia,  alle opere su commissione per varie riviste, come i celebri scatti dedicati a Mae West o Marcello Mastroianni; e infine i ritratti di strada. In queste fotografie Arbus concentra il meglio della sua visione eccentrica, ripudiando ogni genere di abbellimento estetico, alla ricerca dell’imperfezione se non della vera e propria provocazione. Come accade in una delle sue foto più celebri: Child with a Toy Hand Grenade in Central Park  (1962), in cui il soggetto, un bambino, sfiancato dall’attesa dello scatto, contrae la mano, mentre fa una smorfia di rabbia.
Si racconta che  Arbus trasmettesse una “vulnerabilità aggressiva”: alcune persone si dicevano sfinite, costrette a posare per ore fino a sentirsi esauste, solo in quel momento avrebbe ottenuto lo scatto di cui aveva bisogno. Anche per questo la sua fotografia era considerata eticamente ambigua e priva di compassione per i soggetti rappresentati.
In realtà Diane Arbus cercava attraverso la fotografia di avvicinarsi disperatamente a un mondo ai margini, che la attraeva ma da cui era inevitabilmente distante. Si vergognava del suo rango sociale privilegiato, in cui non si riconosceva. Per tutta la vita cercò di negare le proprie origini attraverso la fotografia. Nell’anti normatività degli outsider, trovava forza, consapevolezza e fierezza.
Arbus esplorava territori che non le appartenevano, a volte li invadeva in effetti, cercando di entrare a farne parte come ospite, amica, compagna.
Diversi soggetti ricorrono più volte nelle sue fotografie: con loro era riuscita a instaurare un legame personale, di amicizia, di intimità. Come nel caso del gigante ebreo Eddie Carmel che lei immortala nella celebre Jewish Giant at Home with His Parents in The Bronx, NY, scattata nel 1970; o del messicano affetto da nanismo Lauro Morales, che si esibiva con il nome d’arte di Cha Cha Cha. Arbus lo fotografò  per molti anni, in una camera da letto; sotto i baffi il suo sorriso è collaborativo e complice.
Tra i più celebri scatti anche Identical Twins, ritratto delle gemelline Grady, che Stanley Kubrick omaggerà nel film Shining. La Arbus sviluppò anche altri filoni di interesse, come quello per i nudisti: per instaurare un clima di fiducia reciproca, al momento dello scatto, lei stessa si spogliava.
Al 1970 risale anche una serie dedicata a dei disabili in un istituto: diventerà nota dopo la sua morte sotto il titolo Untitled.

Caduta in depressione, Diane Arbus perse negli ultimi tempi interesse per la fotografia. Si tolse la vita il 26 luglio 1971, all’età di 48 anni.
La retrospettiva curata da John Szarkowski al Museum of Modern Art di New York nel 1972, un anno dopo la sua morte, ne avrebbe decretato la definitiva consacrazione nel mondo dell’arte.
“Vedo la divinità nelle cose ordinarie”, dichiarava la fotografa.  Diane Arbus voleva mettere in discussione il concetto stesso di “normalità”: sottolineare le imperfezioni di una diva e al tempo stesso celebrare la fierezza e la nobiltà dei “diversi”.
Oggi  le sue opere sono conservate, nelle collezioni del Metropolitan Museum of Art di New York, della National Gallery of Art di Washington e del Los Angeles County Museum of Art.
In Italia dal 12 marzo 2023 al 7 gennaio 2024 alcuni scatti di Diane Arbus sono esposti a Palazzo Grassi (Venezia), nell’ambito della mostra CHRONORAMA. Tesori fotografici del XX secolo, la mostra riunisce oltre quattrocento opere, in un percorso che fa rivivere la storia del Novecento attraverso le immagini.

Nella foto d’apertura, una immagine della mostra CHRONORAMA. Tesori fotografici del XX secolo, Palazzo Grassi, Venezia: FRANCES MCLAUGHLIN-GILL, Photographers Allan Arbus and Diane Arbus, 1950, Condé Nast Archive © Condé Nast