Potrebbe apparire contraddittorio e perfino paradossale che proprio il Paese la cui popolazione si è storicamente insediata e organizzata attraverso un flusso secolare di immigrazioni, gli Stati Uniti, siano il luogo dove più violento, sino a sconfinare nel terrorismo, si manifesti l’odio razziale, la discriminazione del diverso, l’odio per gli emarginati. Com’è noto, tale rancore ideologico si esprime in varie forme e con diversa forza politica ormai in tutto l’Occidente, alimentato dagli sconvolgimenti demografici subiti dal mondo povero negli ultimi decenni a causa di guerre e caos climatico. I numerosi movimenti cosiddetti sovranisti esplosi in Europa negli ultimi decenni ne costituiscono la testimonianza più nota. Ma in America – almeno secondo la rappresentazione che ne fanno i nostri giornalisti filoatlantici, i quali conoscono quel Paese da turisti o come corrispondenti ben pagati, – il melting pot della società americana, formato da ininterrotte correnti migratorie provenienti da tutto il mondo, avrebbe dovuto contenere la recrudescenza del fenomeno. In realtà, com’è noto, sono soprattutto gli Stati Uniti l’epicentro, il luogo dove il fenomeno, sotto forma di “suprematismo bianco”, si manifesta oggi con una profondità culturale e con una varietà di forme, anche istituzionali, che non si ritrovano in nessun altro angolo del mondo.
Merito indubbio del libro di Alessandro Scassellati Sforzolini, Suprematismo bianco. Alle radici di economia, cultura e ideologia della società occidentale (Derive/Approdi) è di dar conto di questo fenomeno che conosciamo per le sue manifestazioni terroristiche (i periodici massacri di persone innocenti compiuti da individui isolati) o per il rilevo politico e di governo assunto con la presidenza Trump, mostrandone le radici storiche e gli inscindibili legami con la violenza del sistema capitalistico globale.
Molto opportunamente, Scassellati, come a voler tacitare gli apologeti del modello di società americana, individua già nella sua Costituzione i limiti razzisti della democrazia di quel Paese, quelli che non erano già sfuggiti all’osservazione, pur ammirata, di Alexis de Tocqueville a meta ‘800. Nel «Preambolo della Costituzione (1787), – scrive l’autore – i 55 costituenti “padri fondatori”, tutti maschi bianchi con un background di ricchezza e privilegio, dicevano “Noi il popolo” (We the People): pretendevano che il nuovo governo dovesse rappresentare tutti, ma realmente intendevano “gli uomini bianchi” proprietari di beni – escludendo le donne, i minori, i maschi bianchi adulti privi di proprietà, i lavoratori in condizione servile fatti venire con le buone o con le cattive da Gran Bretagna, Irlanda e Germania, gli schiavi di origine africana e i nativi americani. Questa pregiudiziale razzista, classista e misogina da parte di “uomini bianchi” è stata mantenuta fino ad oggi in tanti settori della vita pubblica, politica e sociale americana, a cominciare dal diritto ad accedere alla cittadinanza, al diritto di voto, ai diritti riproduttivi e al diritto di immigrazione.
La Costituzione non abolì la schiavitù, prevedeva soltanto la soppressione della tratta degli schiavi allo scadere dei 20 anni dalla proclamazione, cosa che avvenne dal 1808. Da allora, in direzione del “nuovo mondo”, all’africano si sostituì l’emigrante europeo, il contadino povero irlandese e tedesco, anch’egli miseramente ammucchiato nelle stive delle navi». Una impronta razzista, classista e misogina, ma anche sessista che ha innervato norme e istituzioni pubbliche sino ad epoca recentissima. Si pensi addirittura, come ricorda l’autore, che «il divieto effettivo di immigrazione omosessuale è stato abrogato solo nel 1990».
Ma Scassellati, che utilizza il tema suprematismo bianco come una chiave per leggere in profondità la storia della società americana, la sua interna composizione e gerarchia di potere, con ammirevole impegno storiografico individua le radici lontane, e per così dire fondative, delle laceranti discriminazioni sociali che caratterizzano quel Paese. Egli le colloca nella stessa “conquista del Nuovo mondo” da parte degli europei, a partire dal 1492. E non si tratta di una forzatura. La ricerca storica ha da tempo capovolto lo stereotipo eurocentrico ed apologetico che voleva la “scoperta dell’America” da parte di Colombo, come una grande conquista culturale e spirituale dell’Europa. Tanto per dare un’idea basti dire che Tzvetan Todorov l’ha definita il «il più grande genocidio dell’umanità». Quello che nell’immaginario europeo è stato per secoli rappresentato come un evento eroico, l’impresa di un pugno di arditi navigatori, è stato in realtà non solo l’inizio di uno sterminio delle popolazioni native, decimati dalle guerre e dalle malattie importate dall’Europa, ma anche e soprattutto l’avvio di un processo grandioso di sviluppo capitalistico a livello intercontinentale. Vale a dire, come ricorda l’autore: «la creazione di un sistema commerciale globale e poi, dalla fine del XVIII secolo, con lo sviluppo del capitalismo industriale europeo. Insieme alle politiche mercantiliste (nazionaliste e imperialiste) e alla crescita dei mercati domestici, il commercio di schiavi neri africani e di merci provenienti dalle colonie sono stati la linfa vitale per la formazione degli Stati-nazione, del colonialismo di insediamento stanziale e del modo di produzione capitalistico europeo».
Non è possibile qui dar conto della ricchezza analitica con cui l’autore, nei densissimi capitoli di cui si compone il libro – con una successione cronologica, per la verità, non sempre lineare – dà conto del complesso fenomeno del suprematismo bianco, indagando, ad esempio, all’interno dei processi culturali e politici con cui si è formata la teoria del complotto e della “grande sostituzione”: vale dire il progetto di sostituire la “razza” bianca, con una popolazione, meticcia e impura. Si capisce davvero poco della società americana del nostro tempo – ma anche del mondo nel suo complesso, dominato dai poteri selvaggi del capitalismo neoliberista – se si ignorano tali fenomeni, che oggi, dopo la fine dei “trenta gloriosi”, degli anni delle politiche rooseveltiane, riportano in nuove forme, con inediti camuffamenti, gli impulsi alla violenza genocida su cui sono nati gli Usa, così come l’America latina. E infatti uno degli elementi di originalità e forza del libro di Scassellati è che, attraverso l’indagine del suo oggetto fondamentale di studio, insegue, per così dire, e illumina, nella storia sociale e politica degli Usa, i processi e i fenomeni di sfruttamento e discriminazione che innervano i rapporti sociali e spiegano i fenomeni esplosivi del presente.
Certamente una pagina di grande interesse, soprattutto per noi italiani, che abbiamo inviato milioni di nostri concittadini in quel Paese, è costituita dalla leggi e dalle politiche federali sull’immigrazione.Tra la seconda metà del XIX e i primi decenni del XX secolo, i grandi lavori pubblici per la costruzione di ferrovie, strade, edifici (i grattacieli di New York o di Chicago) ha richiamato forza lavoro a basso costo da ogni angolo del mondo. Si trattava di una umanità sdradicata, resa straniera e senza dirittti già dall’ignoranza della lingua inglese, che veniva sfruttata con non meno ferocia di quanto accade oggi in tante nostre campagne. Gli immigrati cinesi, giapponesi, ispanici, italiani erano naturlamente oggetto di campagne di odio, perché anche allora non mancavano le forze politiche, i giornalisti, gli uomini di governo che accusavano questi lavoratori dequalificati di “rubare il lavoro” agli americani, di abbassare gli standard salariali, viste le paghe da fame di cui si accontentavano. E in alcuni casi è stata la stessa iniziativa dello Stato federale a costituire l’avvio di una pratica discriminatoria destinata, talora, ad esiti tragici. L’autore ricorda il caso della campagna di odio scatenata contro i lavoratori immigrati provenienti dalla Cina.
In queste pagine Scassellati illustra eventi tragici e una sequela interminabile di iniziative discriminatorie contro le varie etnie provenienti dai vari Paesi del mondo, che sono note, almeno in parte, solo agli storici dell”emigrazione italiana. In realtà si tratta di vicende che oggi appaiono indispensabili per non stupirsi dell’arroganza imperiale degli Usa, per comprendere la sua vocazione discriminatoria al dominio mondiale. Illuminante la politica selettiva operata dal governo federale americano nel corso del XX secolo, attraverso l’emanazione delle cosiddette “quote”, cioé le quantità di migranti ammessi negli Usa, stabilite sulla base delle esigenze delle imprese americane. Esemplare l’Immigration Act del 1924. Quest’ultima notazione denuncia una scelta governativa crudelmente beffarda. Il potente Stato americano negava l’ingresso ai lavoratori di quel continente che per secoli aveva dato agli Stati Uniti una parte rilevante della sua popolazione, tenuta al suo interno come schiava e ancora oggi discriminata ed emarginata, la quota più rilevante delle persone obese, dei cittadini incarcerati, degli uomini uccisi per strada dalla polizia.
Nella foto Donald Trump (Pixabay Gordon Johnson)