Giorgio Amendola, esponente comunista della Resistenza, racconta in una lettera che il fragore dell’esplosione fu così lacerante che il boato riecheggiò nell’appartamento romano di via Propaganda fide, dove era in corso la riunione della giunta militare del Cln. Alcide De Gasperi, colonna portante della futura Democrazia cristiana, rivolgendosi al dirigente comunista, esclamò sorpreso: «Ne avete combinata un’altra delle vostre. Una ne fate e cento ne pensate».
Era il 23 marzo del ’44, quando diciotto chili di tritolo, nascosti in un carretto, esplosero nel cuore di via Rasella, travolgendo 33 uomini del battaglione Bozen, reggimento dell’esercito nazista. Alle 15 e 52, Rosario Bentivegna – nome di battaglia Paolo – travestito da spazzino, accese la miccia, osservando il manipolo risalire la china della via. Cinquanta secondi e poi il trambusto di schegge impazzite e il fuoco della detonazione. L’attentato – come lo chiamano alcuni – è ordito dalle fila comuniste della Resistenza romana. Carla Capponi, Carlo Salinari, Franco di Lernia, Gioacchino Gesmundo, Marisa Musu, Franco Calamandrei ed altri.
La città era occupata dai nazifascisti. Sette mesi di guerriglia urbana. I Gruppi di azione patriottica (Gap) avevano diviso Roma in otto zone di intervento. I partigiani attaccavano senza sosta le truppe occupanti e le camicie nere. In ogni quartiere gli echi della guerra combattuta sulle rive sabbiose di Anzio, crivellavano i muri di Forte Bravetta e di via Tasso.
La rappresaglia nazista alla bomba fu una tragedia di proporzioni disumane. La mattina del 24 marzo, 335 italiani vennero uccisi e sepolti nelle cave di pozzolana, a pochi passi dalla via Ardeatina. Dieci italiani per ogni tedesco ammazzato. Le quarantotto ore che sconvolsero Roma e la sua memoria. Ancora oggi, la vulgata consolatoria della pacificazione nazionale e di una “guerra civile” mai combattuta, marchia i 335 morti come “vittime dei totalitarismi”.
A 74 anni dalla più grande e controversa azione partigiana che la storia ricordi, nel cicaleccio di via Rasella, incontro Mario Fiorentini. L’ultimo gappista delle zone centrali rimasto in vita. Occhi azzurri, criniera bianca e un secolo di vita, sintetizzato nel corpo di sangue e nervi che ancora resiste allo scorrere del tempo. Il termine «Resistenza» ritorna spesso in Mario Fiorentini. Appena lo incontro, la voce squillante, puntualizza: «L’attacco partigiano è un’azione militare. Le stragi naziste appartengono ad un’altra categoria. La strage non è conseguenza dell’azione. Difatti i tedeschi hanno fatto stragi anche in luoghi dove non c’erano partigiani. La nostra era una guerra di liberazione».
Giovane intellettuale umanista. Partigiano aderente al Partito comunista d’Italia. Dal dopoguerra, matematico di fama internazionale. Amico del pittore Emilio Vedova, del registra Carlo Lizzani, di Ennio Flaiano e Vittorio Gassman, compagno e marito di Lucia Ottobrini – «la gappista più odiata da Herbert Kappler» – con cui confezionò le più mirabolanti azioni di guerriglia del “secondo Risorgimento italiano”.
Prima via Margutta e Palazzo Braschi – «ero un capellone prima ancora che andasse di moda avere i capelli lunghi» – poi la clandestinità, il carcere, l’evasione, la missione Dongo con l’Office of strategic service statunitense e le tre medaglie d’argento al valore militare. Mario Fiorentini è un calderone di storie, è l’uomo delle tre vite e dai quattro nomi. Alcuni lo ricordano come Carlo Spada. «Io sono la persona più pacifica che lei abbia mai incontrato nella sua vita, però ad un certo punto mi sono trasformato. Il motivo? I fascisti avevano preso mio padre, la cui unica colpa era quella di essere ebreo».
Fu una scelta esistenziale, umorale e politica, estremamente umana. La giornalista Rosa Mordenti nel suo libro Al centro di una città antichissima descrive capillarmente il clima, le aspirazioni e le contraddizioni di una generazione in lotta. «A tutto questo bisogna pensare. E dopo, forse, si può capire che cosa è stato per un uomo, operaio o intellettuale che sia, quando si decise a lanciare la prima bomba lì a Roma, dopo vent’anni».
Le azioni partigiane si moltiplicano dopo l’8 settembre 1943. I fascisti marciavano, menavano e uccidevano. I nazisti occupavano, menavano e uccidevano. I comunisti pensavano che fossero necessarie azioni che mettessero in difficoltà le truppe tedesche. Roma non doveva attendere gli Alleati, ma combattere e riscattare l’Italia. I Gap erano la punta di avanguardia della progettualità militare del Cln. Roma “città aperta” era una menzogna della propaganda, Roma è una città prigioniera. «Si avvicina il 23 marzo e ci sono i festeggiamenti per la nascita dei Fasci di combattimento. Il comando vuole attaccare il 23 marzo. Io sono contrario, ma il 23 marzo era stato fondato il fascismo e il 23 marzo gli diamo una bella sonata» sorride Mario Fiorentini, sulla poltrona di velluto nel salone attorniato dai libri. «Io non volevo, perché lì c’era gente antifascista con cui ho fatto riunioni, mi conoscevano. Vogliono però che io la predisponga». Fu proprio lui a ideare il piano dell’azione, ma non partecipò attivamente. Mi indica il cantuccio dove dormiva 70 anni fa, il balcone da cui scivolava via Rasella. Sono ancora visibili sulle facciate dei palazzi i fori dei proiettili sparati dai superstiti del battaglione Bozen. «Dopo l’esplosione, questi qui (i nazisti del reggimento) si sentirono avvolti da attacchi e non si rendevano conto da che parte provenissero. Rimasero intronati».
La rappresaglia fu immediata. Vennero rastrellate le carceri di via Tasso e di Regina coeli, l’elenco dei nominativi fu consegnato dal questore di Roma Pietro Caruso sulla scrivania del colonnello Herbert Kappler. 335 persone (5 persone in più, colpa dello zelo nazifascista) prigionieri politici, ebrei e alcuni malcapitati in via Rasella, vennero ammazzati nelle gole dell’Appia antica.
Il 25 marzo 1944, il comunicato dell’agenzia ufficiale Stefani, emanato dai nazisti alle 22 e 55 del giorno prima, riportò che a seguito della «vile imboscata» il comando «ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è stato già eseguito».
Ma i nazisti non avevano affisso dei manifesti per tutta Roma, dove invitavano i partigiani a consegnarsi così da evitare la rappresaglia? È il cavallo di battaglia del revisionismo storico «Non è vero e nemmeno verosimile – si inalbera Mario Fiorentini -. Ci sarebbe stata una sollevazione popolare. Non l’hanno fatto, come fanno a dire che li hanno messi?».
Sotto processo, nel novembre del 1946, il generale Albert Kesserling, incalzato dal giudice sulla questione, rispondeva: «Ora in tempi più tranquilli devo dire che l’idea sarebbe stata molto buona». E il giudice, ancora: «Ma non lo faceste». «No, non lo feci» rispose il graduato nazista.
Le poche ore di distanza tra i fatti di Via Rasella e le Fosse ardeatine certificano la montagna di menzogne e ipocrisie costruite ad hoc per screditare i partigiani. L’eccidio fu un massacro efferato e razionale: la follia era di un altro mondo. Setacciare gli archivi, svuotare le celle, individuare la zona, uccidere con sistematicità, far esplodere le cave per nascondere i corpi mentre i motori delle camionette rombavano e gli imperativi categorici di ordine e decoro nel comunicato. L’efferatezza e il calcolo nazifascista per un crimine contro l’umanità.
«Il giorno dopo la nostra azione, il Vaticano dice che i nazisti sono le vittime e i partigiani carnefici. Lo scrive l’Osservatorio romano» racconta Mario Fiorentini. Alessandro Portelli, storico e scrittore, nell’introduzione al suo libro L’ordine è già stato eseguito, analizza i meccanismi della mistificazione della memoria storica, descrivendo il ribaltamento semantico della colpa. Partigiani colpevoli, sfuggiti all’arresto. I sacrificati delle Fosse ardeatine. I nazisti vittime. L’organo ufficiale del Vaticano invocava «dagli irresponsabili il rispetto per la vita umana che non hanno il diritto di sacrificare mai».
Una vulgata che scarnificò le coscienze di molte persone, tanto da creare una mitologia che giustificava, trovando un capro espiatorio all’abominio. Erich Priebke, ex ufficiale delle Ss, affermerà nell’intervista video-testamento di aver eseguito soltanto degli ordini a cui non poteva sottrarsi. La colpa era dei gappisti. Se non avessero colpito il battaglione Bozen, i nazisti non avrebbero commesso una tale atrocità. Falso.
«Hanno massacrato per 50 anni Rosario Bentivegna, telefonandogli di notte, mandando messaggi, facendo accuse contro di lui, etichettandolo come un assassino. Il partigiano Paolo, sotto certi aspetti, è uno dei personaggi più odiati dai fascisti. Ma anche da alcuni familiari delle vittime». L’ennesima prova del dramma di una guerra di liberazione.
Aricolo pubblicato su Left l 23 marzo 2018
Nela foto, l’entrata alle Fosse ardeatine