Le opere di Van Gogh della collezione Kröller Müller a Palazzo Bonaparte a Roma offrono l’occasione per ripercorrere l’originale ricerca dell’artista, dal naturalismo ad una pittura di visione, capace di cogliere il mondo interiore

Olio su semplice cartone. Colori esplosivi irraggiano intorno al volto di Vincent van Gogh (nato 170 anni fa il 30 marzo 1853-1890). Colori di sole, anche se il giovane volto del pittore è intensamente drammatico. Il cuore pulsante della mostra Van Gogh prorogata fino al 7 maggio in Palazzo Bonaparte a Roma è il celebre autoritratto che l’artista olandese dipinse a Parigi, tra l’aprile e il giugno 1887.
Questo bruciante autoritratto campeggia insieme ad una quarantina di opere del maestro olandese, tutte provenienti dal Kröller Müller Museum di Otterlo, originalissimo museo immerso nella foresta dei Paesi Bassi.
La collezione Kröller Müller – che oltre ad opere di Van Gogh comprende opere di Picasso, Renoir, Gauguin e molti altri – nacque per impulso di Helene Kröller-Müller (1869- 1939), figlia e moglie di industriali che non si accontentò di fare l’ancella del focolare, di starsene chiusa nel proprio agiato privato, ma usò il patrimonio di famiglia per creare un museo che raccontasse quell’arte che per lei rappresentava l’umanità più profonda, le vette più alte della creatività. Con il marito Anton Kröller acquistò 11.500 opere d’arte, fra le quali 91 dipinti di Van Gogh e moltissimi disegni. E quando i soldi di famiglia finirono convinse le istituzioni pubbliche a investire nella creazione del Museo Kröller Müller di cui divenne direttrice. Il primum movens, dunque, fu la sua passione per la pittura di Van Gogh di cui fu tra le prime estimatrici, ben prima che il talento del pittore fosse universalmente riconosciuto. Prova ne è la mostra romana che inanella una serie di perle, appartenenti a periodi differenti della sua breve e folgorante parabola : dai primi ritratti di contadini in stile socialisteggiante alla Millet, allo spessore di quadri, fatti di solo colore, come Il seminatore (1888) fino al drammatico Burrone (1889) che allude alla catastrofe imminente, che avvenne nella mente di Van Gogh nei giorni del tragico epilogo della sua vita. Ma procediamo passo passo. Intercalate da capolavori di Lucas Cranach e di altri maestri della collazione Kröller-Müller, sfilano in Palazzo Bonaparte opere giovanili di Van Gogh che ritraggono lavoratori e lavoratrici delle campagne. Cercava una spontaneità lontana da moduli accademici. I suoi soggetti preferiti «erano donne impegnate in cucina o in lavori di cucito, ora intente a trasportare pesanti sacchi, ora sul punto di cullare un bambino, e insieme uomini colti nella fatica del lavoro nei campi e nei boschi», scrive Maria Teresa Benedetti che, insieme a Francesca Villanti, cura il catalogo Skira che accompagna la mostra. Van Gogh cerca soprattutto l’essenzialità. Dapprima tramite il disegno, poi attraverso il colore, cercando di dare rappresentazione al senso emotivo di ciò che vede.
Via via sempre più “forte” è il risultato del ritratto di un anziano che, chino in avanti, si tiene la testa. In mostra a Roma ce ne sono due versioni, che ben raccontano il passaggio da una pittura naturalistica tradizionale a una folgorante pittura di visione che illumina e dà forma al vissuto interiore. Tutto ciò che sente vero e originale attrae Van Gogh. Con questo approccio si dedica a “vedute” di campagna. Cerca una spontaneità lontana da moduli della pittura consacrata dalle istituzioni del tempo. Le sue donne hanno musi affilati come quelli delle gatte che le circondano. Non c’è nulla di idilliaco in queste rappresentazioni, ma asprezza delle condizioni di vita e condivisione, intensa umanità.
A poco a poco la sua attenzione si sposta alla città. Ma il suo atteggiamento non cambia, resta attratto da ciò che, ai più, poteva apparire periferico. Nel 1882 torna all’Aja dove dipinge una serie di scorci urbani su input dello zio Cornelis Marinus van Gogh, commerciante d’arte in Amsterdam. È in questo periodo che matura la sua pittura al nero: «Versa latte sui disegni a matita, ottenendo un effetto opaco e profondo nel nero, e utilizza il gessetto litografico e l’inchiostro da stampa per riuscire a ottenere le sfumature di nero volute», riporta Benedetti.
La vera svolta però avviene dopo il suo arrivo a Parigi nel 1886. La tavolozza si apre ai colori luminosi degli impressionisti, sperimentando la potenza dei contrasti simultanei che accendono i viola con gli arancio, i gialli con i blu.
L’altra svolta decisiva avviene quando decide di trasferirsi ad Arles in cerca dei colori del Sud, inseguendo il sogno di dar vita a una comune, a un collettivo di artisti, in cui poter lavorare insieme, fianco a fianco, ognuno seguendo la propria ricerca, ma in un’atmosfera che protegga la dimensione irrazionale di ognuno. In mostra il periodo di Arles è raccontato attraverso quadri come Nella natura morta, cesto di limoni e bottiglia dipinta nel maggio 1888. «Ogni spazialità disegnata è eliminata, le forme si collocano in un morbido assemblarsi e fluire senza rigore, con grande dolcezza. Si avverte il senso di una nuova libertà. Fin dall’arrivo, il pittore sfrutta le suggestioni di quella terra, cerca di rinnovarsi e riversare nei suoi dipinti un clima vitale di giovinezza», annota Maria Teresa Benedetti nel catalogo Skira. Sono gli ultimi sprazzi di luce, gli ultimi sprazzi di vita.

Direttore responsabile di Left. Ho lavorato in giornali di diverso orientamento, da Liberazione a La Nazione, scrivendo di letteratura e arte. Nella redazione di Avvenimenti dal 2002 e dal 2006 a Left occupandomi di cultura e scienza, prima come caposervizio, poi come caporedattore.