Molti e oscuri sono gli spettri che si aggirano per l’Europa, nel nostro inquieto presente. Le tragedie del conflitto bellico e i timori di una sua degenerazione, le tensioni sociali generate dalla pandemia e dalla crisi energetica, nuove (e antiche) rivendicazioni nazionaliste, alimentano rancori, sospetti e sempre più profonde divisioni. Tutt’altro che fantasmatiche, queste forze centrifughe si abbattono sui già fragili legami che uniscono il vecchio continente.
È in questo contesto che vede la luce il volume L’Europa di Gramsci. Filosofia, letteratura e traducibilità, opera collettiva che raccoglie molteplici interventi critici, con lo scopo di indagare il rapporto, costante e fecondo, che Gramsci ha intrattenuto con la cultura europea. Il volume, pubblicato con in sostegno di transform!europe, segna il rilancio della collana “Per Gramsci” presso l’editore Bordeaux. E non è certo un caso che per riprendere i fili di questo importante lavoro critico sia stato scelto un taglio prospettico che analizza l’opera gramsciana a partire dalle sue connessioni con il più vasto orizzonte europeo.
Per indagare un sistema teoretico tanto complesso e multiforme è certo necessario uno sforzo corale; per questo motivo i due curatori del volume, Lelio La Porta e Francesco Marola, hanno raccolto i contributi di studiose e studiosi, esperti e giovani intellettuali, che si sono avvalsi delle loro diverse competenze disciplinari per seguire le diramazioni delle riflessioni gramsciane e indagare in profondità i percorsi che da esse sono aperti e lumeggiati.
Il rapporto con l’Europa filosofica e letteraria, che segna tutto il percorso e la produzione gramsciana, dai primi interventi giovanili alle riflessioni carcerarie, profuse nelle lettere e nei Quaderni, si dimostra fondamentale in due accezioni. La cultura europea, infatti, costituisce sia una base per la costruzione del sistema teoretico gramsciano sia, al contempo, il terreno di indagine in cui tale sistema si esplica in analisi e riflessioni critiche. Il concetto fondamentale su cui si incardina l’intero processo di assimilazione e riconversione è quello di “traducibilità”, introdotto dallo stesso Gramsci e da lui utilizzato come uno dei pilastri portanti della sua metodologia critica.
Tradurre, per Gramsci, significa trasmutare un sistema di pensiero in un codice culturale e sociale differente, non è un processo di semplice e pacifica riproduzione, né un meccanico adattamento in contesti caratterizzati da differenti gradi di sviluppo. Rifiutando qualsiasi concezione deterministica, Gramsci ritiene sempre necessario analizzare le infinite modalità in cui struttura economica e sovrastruttura culturale si intersecano e si modificano vicendevolmente. Secondo questa prospettiva diventa dunque fondamentale studiare attentamente i contesti nazionali, non già perché egli consideri le nazioni come entità eterne e immutabili, ma perché vede in esse il complesso politico storicamente determinato in cui i settori sociali esplicano la loro azione materiale e culturale, in cui si confrontano per l’egemonia. Per questo motivo la traduzione, il passaggio da una tradizione nazionale a un’altra, diventa il solo modo per unire in un dialogo fecondo le tradizioni europee. E questo dialogo – che inevitabilmente è anche sollecitazione ermeneutica, forzatura interpretativa, processo di sradicamento e nuovo innesto di sistemi ideologico-culturali – non è un vacuo esercizio intellettuale, ma un metodo caratterizzato da una profonda valenza gnoseologica. Tradurre il pensiero di grandi intellettuali formatisi in diversi contesti culturali consente dunque a Gramsci di acquisire strumenti teoretici molteplici e avanzati, e di servirsene per costruire un metodo critico sempre più penetrante, un sistema di pensiero poliedrico e originale.
Il volume si apre proprio con un saggio di Derek Boothman che indaga lo studio gramsciano dell’opera di Ricardo e che ci rammenta come, secondo Gramsci, vi sia traducibilità reciproca fra l’economia classica inglese, la tradizione politica francese e la filosofia classica tedesca. Queste tre tradizioni, presentate già da Lenin come “fonti” del marxismo, appartengono a tre ambiti di studio differenti, a tre culture distinte e sono espresse in tre linguaggi diversi. Nonostante ciò esse possono essere assimilate e ricondotte a una superiore sintesi, una volta che siano sottoposte al lavoro critico e intellettuale di trasmutabilità.
Gli interventi successivi illustrano sapientemente questo processo traduttivo nel suo formarsi, focalizzandosi sullo studio gramsciano dei tre pensatori fondamentali per l’elaborazione teoretica gramsciana: Hegel, Marx e Lenin, approfonditi rispettivamente nei saggi di Fortunato M. Cacciatore, Pietro Maltese e Gianni Fresu. A questi si aggiunge un altro dittico di interventi – a cura di Giuseppe Guida e Mimmo Cangiano – in cui si analizza la traduzione critica delle correnti soggettiviste (Bergson e Sorel) e quelle pragmatiste di Mach e dell’empiriocriticismo (e della loro “traduzione” nella cultura italiana ad opera delle riviste Lacerba e La Voce). Tutte queste diverse tradizioni, sottoposte alla pressione incandescente della critica gramsciana, si fondono e si trasformano in un materiale plastico, pronto per essere utilizzato in nuove forme; tale processo di orogenesi intellettuale culmina nella formulazione di un sistema teoretico che da una parte supera l’angusta concezione meccanicistica del socialismo positivista e dall’altra riconduce l’elemento soggettivo entro una cornice storicamente determinata, di specifici rapporti di forza, evitando le derive del relativismo e del solipsismo.
A questa prima parte dell’opera, più concentrata sul percorso formativo del pensiero gramsciano, segue una seconda parte, in cui tale strumento viene studiato nelle sue applicazioni operative: appartengono a questa sezione i saggi che indagano lo studio della letteratura. Ad aprire la sezione è il saggio di Marola dedicato alle traduzioni gramsciane di Goethe. Queste riflessioni sono un’occasione per acuire lo sguardo sulla concezione gramsciana della letteratura e dell’attività mitopoietica e sul modo in cui essa influenza la metodologia stessa delle sue traduzioni. La riflessione su questi aspetti continua nel saggio di Lorenzo Mari, dedicato alle traduzioni di opere letterarie inglesi, soprattutto di Kipling e Dickens, in cui si indagano le risorse e i limiti del Gramsci traduttore, studiando attentamente i risultati dei suoi lavori, gli scopi precisi che si prefiggono e i contesti in cui si inseriscono.
I due lavori successivi, a cura di Marco Gatto e Paolo Desogus, approfondiscono lo studio gramsciano dell’evoluzione del mito superomistico dai romanzi d’appendice della letteratura francese alla rielaborazione critica realizzata da Dostoevskij; è nel contesto di questa analisi che Gramsci misura tutta la distanza tra la rielaborazione complessa del grande autore russo e le versioni degenerate che di un tale mitologema si realizzano nella cultura di massa italiana.
Il saggio di Livia Mannelli mostra invece come Gramsci, partendo dalla traduzione dell’opera di Ibsen nel contesto culturale italiano e dalla sua ricezione presso i settori della borghesia conservatrice, riesca ad aprire spiragli di analisi riguardo la condizione femminile in Italia e la gestione materiale ed economica del mondo teatrale; si dimostra così, ancora una volta, come la traduzione di linguaggi e codici differenti sia per il rivoluzionario sardo un grimaldello teoretico in grado di scardinare serrature, aprire spiragli di analisi.
Gli ultimi due contributi – scritti da Noemi Ghetti e Lelio La Porta – ci riconducono infine nell’est europeo, studiando i rapporti fra Gramsci e le pratiche organizzative, politiche e culturali del Proletkult e le distanze e le consonanze teoretiche che è possibile ravvisare fra Gramsci e Lukács, nonostante le scarse annotazioni dirette che entrambi gli intellettuali si rivolgono vicendevolmente.
Le due parti in cui si è idealmente diviso il volume per mera esigenza espositiva non si presentano così nettamente separate, anzi esse intessono fra loro un continuo scambio dialettico. Nonostante la polifonia degli interventi, la diversità degli approcci e dei metodi di studio, tutti i saggi sono ben compenetrati fra loro e in tutti vi sono rimandi, risonanze, terminologie e concetti che ritornano più volte, indagati e approfonditi da angolazioni differenti. L’insieme dei lavori restituisce quindi al lettore un arazzo complesso, stratificato ma strutturato in modo organico e completo, senza ridondanze pletoriche né lacune.
Quest’opera collettanea ha quindi tutte le potenzialità per inaugurare una nuova stagione di studi originali e inediti dell’opera gramsciana, e di mostrare concretamente la ricchezza che si cela nel dialogo costante fra tradizioni europee, quando si ha la volontà – certamente rivoluzionaria – di farle comunicare fra loro, per comprendere meglio la realtà e tentare di cambiarla.