La propaganda di guerra assume la più odiosa e pervasiva delle forme quando raggiunge e viola le coscienze dei più vulnerabili tra i cittadini: i bambini, com’è avvenuto lo scorso 28 marzo per i cento anni dell’Aeronautica militare, quando scolaresche festanti sono state portate ad inneggiare alla presidente del consiglio Giorgia Meloni che si accomodava all’interno di un cacciabombardiere F35 nel bel mezzo di piazza del Popolo a Roma.

Oltre alla guerra in corso in Ucraina dal 24 febbraio 2022, in Italia già da due anni prima, era cominciata una guerra mediatica che alimenta quella che Edgar Morin chiama «isteria di guerra» che «provoca l’odio di ogni conoscenza complessa e di ogni contestualizzazione». Come insegnano i filosofi del linguaggio, abitiamo la lingua che parliamo perché il linguaggio costruisce gli elementi concettuali del mondo in cui viviamo, ne crea le coordinate condivise di riferimento. Attraverso il linguaggio non solo descriviamo la realtà, ma la organizziamo quando con le parole elaboriamo un pensiero. (non a caso logos indicava nella filosofia greca sia la parola che il pensiero). Tuttavia, l’argomentare è spesso vittima di fallacie, inganni che svelano errori logici nella costruzione dei ragionamenti. Errori inconsapevoli ai quali ci affidiamo per pigrizia mentale oppure inganni consapevoli per ottenere ragione, promuovere tesi precostituite, ostacolare l’esercizio del pensiero critico. Fallacie che hanno come caratteristica comune la semplificazione della complessità.

Un’epifania massiccia di fallacie argomentative si è avuta con la narrazione della pandemia da Covid-19 in chiave bellica: non si è trattato di un mero espediente metaforico ma, per le notevoli implicazioni culturali e politiche che ha generato, di un vero paradigma interpretativo. Nel 2020, infatti, insieme alla pandemia ha cominciato a dilagare il linguaggio bellico per raccontare l’impegno collettivo delle comunità per salvare persone aggredite dal subdolo “nemico”, che andava necessariamente “sconfitto”. Anticipando e preparando, di fatto, il clima bellicista poi pienamente dispiegato con la narrazione del conflitto armato in Ucraina, esploso sui media italiani dal 24 febbraio 2022 in piena continuità lessicale tra la narrazione della “guerra” al virus e quella del “virus” della guerra. Ma quella modalità di racconto della pandemia era ingannevole per molte ragioni: ha forzatamente banalizzato ciò che è complesso; ha personificato in un nemico un elemento naturale indifferente, non intenzionalmente ostile; ha rappresentato questo nemico come “alieno”, non considerando che è il sistema stesso ad essere “malato”; ha favorito il depotenziamento della procedure democratiche: la guerra è “stato di eccezione” per definizione; ha diviso le persone in amici e “traditori”, tra coloro che rispettavano e coloro che trasgredivano restrizioni; ha costruito il mito degli eroi in corsia, trascurando di rispondere dei tagli alla sanità che hanno costretto ad affrontare la crisi in situazione di precarietà; ha rilanciato il mito della guerra come mobilitazione positiva; ha oscurato il tema del prendersi cura reciproco, antitesi del paradigma bellicista. Dunque questo racconto martellante della pandemia è stato funzionale – intenzionalmente o meno – alla ricostruzione di un immaginario positivo della guerra come sforzo collettivo, come mobilitazione patriottica, come esaltazione della potenza militare. In un Paese nel quale il pudore della guerra, insito nel ripudio costituzionale, faceva sì che veri interventi militari venissero definiti ossimoricamente “missioni di pace”, la guerra – associata, in questo caso, all’impegno di chi salva vite umane anziché ucciderle – è tornata ad essere rivalutata come metafora di valore, anziché di disonore. Anche per questo è sembrato normale che dal 24 febbraio 2022 i “bollettini di guerra” serali dei morti da covid venissero rimpiazzati da bollettini di guerra dei morti di una guerra guerreggiata, senza doverne modificare la cifra narrativa.

Dall’invasione russa dell’Ucraina il linguaggio bellicista è stato dispiegato in tutta la sua potenza per convincere della “necessità” del coinvolgimento italiano non in un processo europeo di mediazione tra le parti, ma in un ingaggio armato sempre più massiccio ribadito ossessivamente nel discorso pubblico. Deformando sui principali media, ancora con uso abbondante di fallacie argomentative, le opinioni basate su analisi che, ad esempio, provavano a ricostruire la genealogia del conflitto antecedente al 24 febbraio per cercarne una via di de-esclation: una narrazione del conflitto inquadrata nel paradigma binario della “guerra giusta”, fondata sullo schierarsi militarmente dalla parte dell’aggredito – non per la pace ma per la “vittoria” – pena essere tacciato di filo-putinismo. In questa ottica, anche le iniziali manifestazioni spontanee per la pace e la solidarietà con il popolo ucraino sono state interpretate – come nella distopia orwelliana della neolingua: “guerra è pace” – come mandato al governo per entrare di fatto in guerra, sulla pelle degli ucraini.
È il dispiegamento della propaganda di guerra: un dispositivo antico quanto la guerra stessa, codificato nell’elenco delle “bugie in tempo di guerra” stilato da Arthur Ponsonby, politico pacifista inglese, dopo la prima guerra mondiale, nell’omonimo libro nel quale analizza gli inganni messi in atto dalla propaganda di tutte del parti in conflitto. La storica belga Anne Morelli ha recuperato questo testo e ne ha fatto una verifica alla luce delle guerre successive, fino all’aggressione militare Usa dell’Iraq del 2003, nelle quali mutatis mutandis tutti i “Principi elementari della propaganda di guerra” risultano confermati e adattati ai diversi contesti per convincere le opinioni pubbliche pacifiste. Le guerre hanno enormi costi umani ed economici e per esse bisogna essere disponibili a uccidere, a morire, a fare sacrifici, per questo è necessario mettere in campo gli specifici meccanismi di persuasione, che si ripropongono, guerra dopo guerra, attraverso sistemi mediatici sempre più pervasivi. Ecco l’elenco dei dieci “principi elementari di propaganda di guerra”, riproposto da Morelli: 1. Non siamo noi a volere la guerra, ma siamo costretti a prepararla e a farla; 2. I nemici sono i soli responsabili della guerra; 3. Il nemico ha l’aspetto del male assoluto (salvo averci fatto affari fino a poco prima); 4. Noi difendiamo una causa nobile, non i nostri interessi; 5. Il nemico provoca volutamente delle atrocità, i nostri sono involontari effetti collaterali; 6. Il nemico usa armi illegali, noi rispettiamo le regole; 7. Le perdite del nemico sono imponenti, le nostre assai ridotte; 8. Gli intellettuali e gli artisti sostengono la nostra causa; 9. La nostra causa ha un carattere sacro (letterale o metaforico); 10. Quelli che mettono in dubbio la propaganda sono traditori.
Quante volte abbiamo sentito e sentiamo nel discorso pubblico queste formule, diversamente declinate, invece di analisi e proposte responsabili e consapevoli di essere “sull’orlo dell’abisso”, come ha ricordato anche recentemente Jürgen Habermas?

Infine, la propaganda di guerra assume la più odiosa e pervasiva delle forme quando – senza dover neanche far uso dei dispositivi linguistici – raggiunge e viola le coscienze dei più vulnerabili tra i cittadini: i bambini, com’è avvenuto lo scorso 28 marzo per i cento anni dell’Aeronautica militare, quando scolaresche festanti sono state portate ad inneggiare alla presidente del consiglio Giorgia Meloni che si accomodava all’interno di un cacciabombardiere F35 collocato nel bel mezzo di piazza del Popolo a Roma. Un orribile strumento di morte, capace di trasportare testate nucleari, circondato dai bambini in tripudio nella più oscena e subdola delle parate belliciste. Una messa in scena da regime militarista. Ma in tempi di guerra, ogni governo diventa regime.

Pasquale Pugliese è filosofo e formatore fa parte del Movimento nonviolento