Le testimonianze di donne che hanno scelto la non maternità sono state raccolte in un'antologia dalla giornalista de "La Stampa”. Ne emerge un quadro della società italiana che fa riflettere, al di là dei dati Istat

Difficile non farsi contagiare dalla vitalità straripante di Simonetta Sciandivasci, anni 37, giornalista delle pagine culturali di uno dei quotidiani di nobile tradizione come La Stampa. E soprattutto autrice di un libro-antologia dal titolo I figli che non voglio pubblicato da Mondadori.

Intanto, perché questo titolo perentorio? Simonetta Sciandivasci risponde sorridendo: «Sì, in effetti lo sembra, perché ho questo modo un po’ sbruffone di porre le cose, ma invece sia il libro che il titolo sono il frutto di molti esami di coscienza e di confronto con colleghi e amici. E con centinaia, forse migliaia di donne che hanno scritto al giornale per quattro mesi sul tema, quando l’ho proposto».
Dalla rubrica “Caro Istat”, Simonetta ha tratto alcune lettere, inserite nel libro a testimoniare la varietà di opinioni e di motivazioni che conducono tutte allo stesso punto: non vogliamo figli. Una conclusione che contraddice una cultura “maternale”, il peso del cattolicesimo, concetti ricorrenti come “la benedizione di un figlio”, “un figlio come espressione di sé…”.

«A questo punto della mia vita – continua l’autrice – mi sono posta il problema ed ho risposto che no, la mia esistenza non si completa con quella di un figlio, così ho posto la domanda ai lettori in un dibattito durato mesi. Come si legge, alcune donne si dicono felici di entrare nella minoranza senza figli, calcolata del 5%, della popolazione italiana, i famosi sessanta milioni». Dagli ultimi dati Istat in Italia, nel 2022 risulta che il 33,2% della popolazione vive da solo, mentre si è creato una famiglia il 31,2%; il 45,4% di donne è senza figli, di cui il 17,4% child free, cioè ha scelto decisamente la non maternità, mentre per le altre, determinanti possono essere problemi sociali, mancanza di lavoro, di strutture per l’infanzia o altro.

I figli che non voglio è un libro corale: a cominciare dalla impaginazione, dalla partecipata prefazione del vicedirettore de La Stampa Andrea Malaguti, alla descrizione della pre-riunione redazionale in cui “Sciandi”, come dicono i colleghi, enuncia la propria decisione di non avere figli, frase buttata lì, che, in quanto estranea al momento, diventa improvviso oggetto di interesse comune, segno del grado di coinvolgimento che può suscitare nel pubblico.
Chiediamo: è libro che si rivolge a un pubblico solo di donne? «Macchè! Anche di uomini, alcuni anche grandi di età. Questo l’ho verificato però nelle presentazioni in libreria, sui social ho sperimentato l’odio e la violenza verso la mia persona, accusata di tradire il mio stesso sesso. Nelle librerie è stato diverso: ricordo una coppia di anziani che non avevano avuto o voluto figli, che invece chiedevano perché non potersi occupare dei figli degli altri: “Voglio essere “generativo”, diceva lui, e questo mi è sembrato molto bello».

E qui emerge il grande tema delle adozioni, delle difficoltà che si incontrano, di quanti, magari aiutati dallo Stato, sarebbero in grado di crescere i molti bambini che riempiono orfanotrofi e istituti. Secondo i dati dell’Anfaa, Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie i bambini dichiarati adottabili si attestano stabilmente a circa mille ogni anno mentre le famiglie che hanno presentato domanda di adozione nazionale sono ovviamente molte di più: nel 2021 sono state oltre ottomila (Italiaindati). Come un fiume in piena tutto quanto ruota intorno alla nascita, alla vita di un bambino, alle sue possibilità determinate dalla provenienza, entrano nel discorso, perfino la sorte del piccolo Enea, lasciato nella culla per la vita della clinica Mangiagalli. «In fondo – dice Sciandivasci – con un gesto di fiducia, di chi è convinto che sia possibile l’umana solidarietà: quella madre lascia in un luogo sicuro, caldo, un bambino che pensava di non riuscire a crescere», come ha lasciato scritto.

E tornando al libro: «Il mondo non è pronto ad accogliere la pluralità del concetto di maternità, perché lo legge solo come processo individuale» così sottolinea Carlotta Vagnoli, trentacinque anni, fiorentina, attivista e scrittrice, una delle donne sollecitate a scrivere sul tema. A lei fa eco Flavia Gasperetti, ricercatrice, traduttrice, autrice (Madri e no. Ragioni e percorsi di una non maternità, Marsilio), la prima in Italia a dire che esistono donne felici di non aver mai pensato alla maternità. Donne non impensierite dalla solitudine, dall’anzianità, dalle spese da non condividere… Oppure, come si legge nel libro, donne che rifiutano luoghi comuni sul fatto di fare figli “per farsi aiutare da anziani, per veder continuare la specie…”.

Nel libro parlano venti donne e sei uomini, le donne sono quasi tutte scrittrici, autrici, cineaste. La domanda è: sono donne che rivolgono al proprio lavoro il senso materno? La “creatura” da proteggere è quel tipo di realizzazione personale? «Non mi pare che nessuna di loro viva la scrittura o l’arte in questo modo. Per quel che mi riguarda non credo assolutamente in una sostituzione di questo tipo, sarebbe folle. Il lavoro realizza o impensierisce o tormenta, ma è altro», risponde Sciandivasci.
Tra le testimonianze, c’è anche quella struggente, di una giovanissima persona transgender. «Sì, Alec Trenta, ventitrè anni, autore di una graphic novel Barba. Storia di come sono nato due volte (Laterza) dove ha messo su carta il problema “figli”. In realtà Alec era Lisa e prima di accedere alla transizione completa la endocrinologa gli ha proposto di congelare i suoi ovuli per pensare, un giorno di potere essere padre».
E comunque Alec è l’unico a parlare del corpo. Nelle pagine scritte dagli uomini, scrittori, giornalisti, autori (Daniele Mencarelli, Raffaele Notaro, Francesco di Taranto, Gianluca Nicoletti) la paternità non viene nominata come esito di un rapporto d’amore, ma quasi come di un fatto razionale, come raccontare una vita d’altri. Unica eccezione, lo scrittore cinquantasettenne Marco Franzoso (“Il bambino indaco”) rimasto solo con il figlio di otto mesi, che ha cresciuto lasciando il lavoro. Lì la vicinanza anche fisica con il piccolo si sente.

Infine, il libro è come se rappresentasse un volo ad ali spiegate sui grandi temi di cinquant’anni di femminismo, da Luisa Muraro a Betty Friedan, da Barbara Duden ad Adrienne Rich, Elisabeth Badinter…. È così?
«Sì» dice sorridendo Simonetta Sciandivasci e non teme il confronto con quella pesantissima, conflittuale, e un po’ astratta discussione frutto dei tempi in cui forse per avere ascolto bisognava ”essere contro”. «Non mi interessa teorizzare – continua -, ho usato volutamente un tono leggero, ma non superficiale per affrontare un argomento così delicato per noi, per dire che non siamo “donne sbagliate”. Recentemente Ferdinando Camon sul quotidiano Avvenire ha lamentato il fatto che nessuno più vuole fare figli perché siamo tutti infelici, ma la felicità non si misura dai figli, io sono fiduciosa nel futuro, desidero il contributo degli altri, io voglio solo essere me stessa».

Nella foto l’immagine della copertina dell’antologia “I figli che non voglio” a cura di Simonetta Sciandivasci