Il film della regista franco-tunisina Erige Sehiri offre un punto di vista tutto al femminile sul Paese nordafricano attraversato adesso da una grave crisi. Il racconto di una giornata di lavoro in un frutteto è l’occasione per affrontare temi come il patriarcato, il rapporto con gli uomini e le condizioni lavorative delle giovani braccianti

Il frutto della tarda estate è il primo lungometraggio narrativo della regista franco-tunisina Erige Sehiri, già autrice del documentario Railway men (2018) con il quale denunciava – intrecciando con acume i volti, le voci e le testimonianze di cinque lavoratori resilienti – le precarie condizioni lavorative e manutentive in cui versava la compagnia ferroviaria nazionale tunisina all’indomani della Rivoluzione dei gelsomini.
Presentato in anteprima mondiale nella sezione Quinzaine des réalisateurs del Festival di Cannes, e premiato al workshop Final cut in Venice durante il Festival di Venezia nel 2022, Il frutto della tarda estate racconta, con vividezza di immagini, le aspirazioni, gli amori e il desiderio di cambiamento delle giovani protagoniste, impegnate nella raccolta stagionale dei fichi in un frutteto a nord-ovest della Tunisia.

Nato dall’incontro fortuito di Erige Sehiri con la protagonista, Fidé Fdhili, durante la ricerca del cast per la realizzazione di un film su una stazione radio locale, Il frutto della tarda estate diviene invece l’occasione per esplorare e affrontare tematiche come il patriarcato, il rapporto con gli uomini e le condizioni lavorative delle giovani lavoratrici agricole, e Sehiri lo fa affidandosi all’autenticità di attori e attrici non professionisti, abitanti di quei luoghi e conoscitori del dialetto berbero.

L’estate sta volgendo al termine e la luce tiepida filtra tra le foglie, forti e resistenti: «Offrono riparo e tregua dal caldo» afferma la regista, «ti avvolgono, ma possono anche essere un po’ soffocanti». L’intento è quello di comporre, mediante immagini, una coralità di personaggi e storie, rimarcandone la necessità di rivendicare quella libertà inevitabilmente negata, soprattutto dalla mancanza di opportunità e da contesti familiari conservatori. È il frutto, invece, ad essere delicato e, come i rapporti interumani, ad esigere conoscenza e gesti sapienti: bisogna fare attenzione, non scuotere i rami, ma muoversi tra di essi come in una danza. Di corpi, foglie e braccia. A fare da contraltare la presenza delle donne più anziane, maggiormente ancorate alle tradizioni, ma capaci di lasciarsi andare ai ricordi, alle confidenze, fino a sciogliere nel canto, e poi nel pianto, i momenti di tensione emotiva e drammaturgica. È l’amore il fulcro tematico che stempera i conflitti e abbrevia le distanze generazionali: «Leila, perché l’amore è così difficile? così complicato?», domanda una ragazza all’anziana che si occupa del frutteto.

Come suggerito dal titolo originale (Under the fig trees) il frutteto è l’unico scenario ad ospitare il racconto, ad accoglierne le corde più intime e private, lasciando nel fuoricampo, e quindi solamente evocati, ambienti e storie legati al contesto ordinario di ognuno dei personaggi.
Tutto si svolge nell’arco temporale di una giornata, al termine della quale le donne più giovani «si fanno belle perché non vogliono sembrare sempre braccianti. È il loro modo di affrancarsi dalla loro condizione sociale. Il loro stato di lavoratrici scompare e tornano ad essere donne. Fuori dalle convenzioni che le imprigionano».