Alla scoperta del mondo in continua evoluzione delle serie tv. Ecco cosa ci hanno raccontato gli autori del volume a più mani "Fine serie mai”, curato da Giusi De Santis

Fine serie mai è un nutrito e stimolante testo a più mani che delle serie non solo ne ripercorre storia, esordi e maggiori successi, ma che invita a riflettere sulla portata di questo nuovo modo di raccontare per immagini. Come scrive Piero Spila, uno degli autori: «Se la serialità televisiva è l’ultima espressione della contemporaneità, ciò non rappresenta rottura ma continuità». E aggiunge il regista Massimo D’orzi: «La questione non è serialità o cinema, ma fra immagine e immagine. Dare un senso a questa parola resta tuttora la grande sfida che attende i cineasti del nuovo millennio».

Pubblicato da L’Asino d’oro edizioni è un libro sulle serie televisive a cura di Giusi De Santis, studiosa, critica cinematografica e teatrale con i contributi di Natascia Di Vito, montatrice, Guido Silei, sceneggiatore, Piero Spila, critico cinematografico e sceneggiatore, e con la postfazione del regista Massimo D’orzi. Li abbiamo intervistati per Left.
Al centro del volume c’è una interessante riflessione sulla senso della parola immagine, attingendo al pensiero di Massimo Fagioli, sviluppata dalla psichiatra Alice Dell’Erba. Perché, scrive De Santis, che ha studiato a lungo l’opera di Buñuel: «La migliore proposizione di una serie sta nella capacità di produrre idee, di veicolare e sostenere quell’imprescindibile nesso tra immagine e pensiero. Proprio di questo parlava Fagioli in una intervista “Addormentarsi e sognare” del 2013 di Francesco Gatti di Rai News 24, in occasione dell’uscita del libro Left 2009».

Il libro nasce dopo l’incontro a Roma, promosso da L’Asino d’oro nel giugno 2021, dal titolo “Di che serie sei? La serie TV e i nuovi confini dell’audiovisivo”. Così con Di Vito, Silei e Spila, Giusi De Santis ha cominciato ad approfondire l’argomento. Che cosa vi interessava raccontare? Le chiediamo. «Inizialmente, ci premeva sottolineare la distanza tra cinema e serie tv. Aspetto che poi è scivolato in secondo piano, perché siamo stati presi dalla curiosità nei confronti di un’immagine che, in termini di evoluzione e sperimentazione, ci chiamava a rispondere a una grande sfida contemporanea. Da un punto di vista teorico, ma anche storico-sociale». Il libro dunque va oltre la “diatriba” cinema e serialità. Ma cosa ha in più una serie rispetto ad un’opera per il cinema e cosa in meno? «Affidandosi alla possibilità di declinare una storia in più stagioni, sicuramente una serie può accogliere, al suo interno, una dilatazione maggiore del racconto, sia contenutistica che temporale – risponde la curatrice del volume -. Quando poi, accanto alla sperimentazione stilistica, si fa ricorso a una ricerca sull’immagine, in termini di movimento e di contenuto, allora il confine tra i due prodotti audiovisivi si assottiglia sempre di più. Nel caso però dell’opera cinematografica, resta pur sempre la straordinaria esperienza della visione in sala».

Sulla stessa linea si è mossa Natascia Di Vito che spiega le differenze nel montaggio: «L’impianto produttivo di serie e serial comporta un’ottimizzazione delle tempistiche lavorative molto più serrata rispetto al cinema. Dal punto di vista della creatività, c’è una grande differenza tra la maggior parte dei prodotti seriali della tv generalista e quelli delle piattaforme. Nel primo caso si ricorre a una narrazione classica, con un montaggio lineare scandito da tempi di racconto che rispettano la struttura descrittiva della grammatica della drammaturgia tradizionale. Tutto cambia con le emittenti OTT e Pay tv, il montaggio diventa veloce, discontinuo, fatto di scavalcamenti di campo, stravolgimento di sguardo sui personaggi: espedienti che mantengono alto il livello di adrenalina nello spettatore». Nel suo intervento in questo volume Di Vito approfondisce anche il ruolo dell’eroe e dell’antieroe. Perché, le chiediamo, spesso il pubblico si rispecchia in quest’ultimo? «Si parla dei “rough heroes”, caratterizzati da un’immoralità che nasconde una profonda umanità: la loro “cattiveria” è giustificata da vissuti familiari o sociali che li portano a ribellarsi, anche a costo di commettere azioni efferate. Hanno capacità intellettive, uno spiccato senso dell’umorismo, oppure celano fragilità e insicurezze. Nel libro faccio l’esempio della serie You in cui gli autori riescono a far vedere agli spettatori chi è davvero il  personaggio Joe. È uno stalker, violento certamente, ma ci appare anche in tutta la sua fragilità. Gli sceneggiatori riescono a comunicare anche l’invisibile agli spettatori. Ma c’è di più, la serie ci parla di un’idea culturale di fondo in cui si propone l’ideologia di un mondo fluido, senza identità precise, che scatena probabilmente un paradossale processo di identificazione e di rassicurazione in un pubblico, soprattutto adolescente, che fatica a trovare e ritrovare una propria identità».

Quali sono gli elementi fondamentali in una serie televisiva? Chiediamo a Spila. «Nel racconto cinematografico bisogna andare presto al punto, badare al ritmo e temere le cosiddette zone morte. La serie televisiva punta invece su archi temporali sovradimensionati, sulle digressioni, su un rapporto con lo spettatore più libero e inesauribile». Sempre in tema di sceneggiatura, Silei, qual è dunque la differenza sostanziale tra la scrittura per il cinema e per la serie? «Al più alto grado il cinema è poesia, mentre la serialità è prosa. Ma una cosa non esclude l’altra: esistono poeti che scrivono romanzi, e romanzieri che scrivono poesie. Come sostengono i due autori intervistati nel volume, Stefano Sardo e Emanuele Scaringi, in fondo si tratta sempre di raccontare storie e di emozionare il pubblico». In questo momento, qual è il pensiero della critica in generale sulle serie e su quelle italiane? «La mia impressione è che manchi un vero pensiero critico, perché la critica “ufficiale” è iper-polarizzata, ma soprattutto perché nell’epoca del “mi piace/non mi piace” tutti si considerano competenti e la critica ha perso la sua funzione sociale».

Seguendo i “mi piace”, il pensiero corre a Mare fuori. A che cosa si deve il successo di questa serie, considerato che è in dialetto e che tratta argomenti così lontani dall’ordinario della maggior parte degli adolescenti? «Mare fuori dà l’opportunità a tanti ragazzi di guardare una fiction tradizionale su medium a loro familiari. L’avvento delle piattaforme digitali, offrendo nuovi metodi di fruizione, ha allargato il bacino di utenza di molti prodotti audiovisivi, soprattutto tra gli adolescenti, che fino a qualche anno fa erano esclusi dalla classica visione seduti sul divano davanti al televisore». Quindi, è un momento davvero florido anche per l’Italia, così domandiamo a D’orzi se anche per le serie vale l’idea del tempo: «Il cinema è l’arte che ha potuto sviluppare per prima l’idea di un tempo legato all’immagine, che non è un tempo cronologico e nemmeno storico. È un tempo umano. Le serie Tv hanno apportato un concetto nuovo: quello del superamento dell’idea di un luogo, di uno spazio, di un tempo preciso in cui assistere alla visione».

Una rivoluzione dell’uso del tempo, come scrive lo stesso Spila: «Il non dover chiudere necessariamente il discorso, ma viceversa lasciarlo aperto, vivo, ovvero il Fine serie mai che dà il titolo al libro». La serie, però, non come anestetico, ma come accompagnatrice di un viaggio sostiene D’orzi e ancora gli chiediamo: di che cosa dovrebbe parlare una serie per descrivere il presente? «Sono interessato a quel che accade alle nuove generazioni. Ho la sensazione che vi sia qualcosa di nuovo. Quelli trascorsi sono stati anni di sospensione, di attesa, che se da una parte hanno alimentato conflitti, paure, dall’altra hanno fatto emergere la volontà di prendere la vita nelle loro mani; rivendicano il diritto alla salute fisica e mentale». Le serie tv sono in grado di percepire questo sentimento che giunge dalle nuove generazioni? O vogliono solo imporre modelli? «Ecco di questo dovrebbe parlare con maggior coraggio una serie tv. E anche il cinema. Il libro supera il discorso sulle differenze, permettendo di conoscere un genere e tutte le sue potenzialità». Il contemporaneo come ha sottolineato De Santis, cui per concludere chiediamo: qual è il futuro delle serie? Il futuro della serie? «Scopriamolo, perché no?, in una seconda stagione di Fine serie mai».