La diffusione planetaria dell’interesse per Antonio Gramsci ha posto da tempo il problema della disponibilità di traduzioni corrette e integrali dell’opera gramsciana, la cui mancanza è stata non di rado, e in diverse parti del mondo, una delle cause (o delle scusanti) di tanti usi impropri e di fraintendimenti di categorie, passaggi, concetti dei Quaderni del carcere. Non mancano traduzioni parziali in diverse lingue, e non c’è dubbio che col tempo si siano moltiplicati gli sforzi per completarle in alcune importanti macroaree linguistiche, come quella portoghese-brasiliana per esempio, nella consapevolezza, sempre più alta man mano che Gramsci andava diventando un autore globale, che una conoscenza diretta dei testi dell’autore sardo fosse una condizione necessaria per comprenderlo pienamente e utilizzarlo politicamente nel modo giusto.
È chiaro quindi che tradurre Gramsci in inglese sia un’operazione che va ben al di là della meritoria opera di diffusione di Gramsci nel mondo anglofono, e significa in un certo senso garantire all’autore dei Quaderni del carcere un passaporto per il mondo intero, permettergli di arrivare davvero ovunque. Il corposo volume a cura di Salvatore Cingari ed Enrico Terrinoni Gramsci in inglese. Joseph A. Buttigieg e la traduzione del prigioniero (Mimesis, 2022) è al tempo stesso un omaggio allo studioso e traduttore scomparso e una ricognizione di alcuni momenti e passaggi della penetrazione del pensiero gramsciano nel mondo di lingua inglese.
Joseph A. Buttigieg era nato a Malta nel 1947 ma era statunitense di adozione. Anglista e comparatista di formazione, ha insegnato nell’Università di Notre Dame, Indiana, dove non ha mai disgiunto l’attività accademica da una fondamentale tensione militante, esercitata anche nell’ambito degli studi letterari. Proprio in questo contesto di interessi ha incontrato Gramsci, iniziando a occuparsene, grazie anche alla sua conoscenza della lingua italiana, e avviando da subito una frequentazione in senso politico e culturale del suo pensiero e della sua opera.
Buttigieg ha pubblicato in vita la traduzione dei primi otto Quaderni di Gramsci, (Prison Notebooks) fra il 1992 e il 2007, introducendo nel mondo degli studi gramsciani un formidabile strumento di mediazione internazionale. Altri Quaderni erano pronti per la pubblicazione quando Buttigieg è morto nel 2019, proprio durante la campagna elettorale per le primarie della Presidenza degli Stati Uniti nelle quali suo figlio Pete, attuale Segretario ai trasporti, perse la contesa per la nomination contro Joe Biden. Il lavoro va certamente continuato, prima di tutto a partire dal contributo di Marcus E. Green che ha già pubblicato la traduzione del Quaderno 25 sui subalterni e che ha lavorato a lungo con Buttigieg ai precedenti Quaderni. Vi è del resto una differenza fra i Quaderni miscellanei e quelli speciali che potrebbe rendere molto più agevole la prosecuzione del lavoro. Nei primi, infatti, Gramsci stende i testi per la prima volta (testi A) e quindi il lavoro di traduzione ha richiesto un intervento di base, fondativo; negli altri, invece, è prevalente la seconda stesura degli stessi testi (testi C), organizzati in modo diverso e solo in alcuni casi riscritti sostanzialmente. I testi B, infine, sono quelli che hanno avuto un’unica stesura. Ma vi è anche un’altra differenza importante fra i due gruppi in termini di lavoro da completare: Buttigieg ha lavorato sull’edizione critica dei Quaderni del carcere curata da Valentino Gerratana e uscita nel 1975 ma, per il pubblico non italiano a cui si rivolgeva, ha esteso enormemente l’apparato delle note rispetto all’edizione di partenza. La grande mole di note che è stata necessaria per il gruppo dei Quaderni già usciti copre quindi in buona misura anche le necessità di quelli ancora inediti.
Gramsci in inglese offre nella prima parte due studi su Buttigieg: il primo, di Guido Liguori, è una ricostruzione del profilo biografico e politico dello studioso, soprattutto in riferimento alla sua presenza nella cultura italiana, ma con importanti incursioni nell’impegno di Buttigieg nel dibattito nord americano; il secondo, di Enrico Terrinoni, sull’interesse di Buttigieg per James Joyce e sul suo lavoro teso a sottrarre l’autore di Dublino alla morsa del New criticism che ancora negli anni Ottanta imprigionava l’opera joyciana in un estetismo iperletterario che per Buttigieg ne sminuiva la dimensione storica e politica. In questo approccio, che era di fatto un attacco alla critica culturalista così egemonica negli Stati Uniti, sono già presenti tutto il modo di Buttigieg di rapportarsi ai fatti letterari e il suo gramscismo teorico e militante.
Joe Buttigieg fu infatti tra i fondatori, e a lungo presidente, della International Gramsci Society, la rete nata per mettere in contatto tutti gli studiosi e le studiose di Gramsci nel mondo. Da levantino quale era, visse questo incarico in modo pragmatico: fotocopiava personalmente le pagine del Bollettino dell’associazione che lui stesso produceva, e che era lo strumento di collegamento fra Italia, Giappone, Brasile e tanti altri Paesi prima della rivoluzione digitale, e poi lo spediva in busta a mezzo mondo dalla sua università. Studiare e organizzare erano una cosa sola per lui, proprio secondo l’insegnamento gramsciano.
Molto importante è la seconda sezione del libro, che presenta diversi saggi dello studioso scomparso finora inediti in italiano, e che coprono un arco di tempo compreso fra gli anni Ottanta e la sua morte: decenni nei quali gli studi e gli usi gramsciani si sono enormemente ampliati e in parte trasformati, volgendo verso una ricerca storica e testuale più rigorosa, per correggere qualche eccesso interpretativo degli anni precedenti. Da buon traduttore, Buttigieg aveva sempre vigilato sull’attenzione al testo, ma prestando la massima cura a non perdere mai la dimensione militante della ricerca gramsciana, il suo carattere intrinsecamente interdisciplinare, la sua profonda natura politica. Amico e sodale culturale dell’intellettuale palestinese padre dei Post colonial studies Edward Said (che per primo sollecitò la Columbia University Press a occuparsi di Gramsci, come racconta Guido Liguori nel suo contributo), Buttigieg ha anche contribuito a far conoscere in Italia alcune figure centrali del gramscismo anglo americano, come Stuart Hall e Cornel West, oltre che lo stesso Said. A questi intellettuali e al loro uso creativo di alcune categorie gramsciane, come quella di subalterno, Buttigieg riconosceva di aver sottratto Gramsci all’accademismo culturalista cui era relegato negli Stati Uniti, e di aver dialogato proficuamente con il suo pensiero per conoscere la società del presente allo scopo di trasformarla. Questi saggi e articoli, scritti per contesti diversi, rivelano, pur con accenti differenti dovuti ai diversi momenti e alle diverse fasi, la costante attenzione di Buttigieg al tema della spoliticizzazione del dibattito culturale in America. Da questo punto di vista, Gramsci e le letture che ne venivano proposte erano una vera e propria cartina al sole, soprattutto in riferimento a certe categorie, come quella di società civile, troppo spesso posta in opposizione strumentale a quella di Stato, come soggetto autonomo dell’azione pubblica: una versione che ha avuto una certa fortuna ma che evidenzia un fraintendimento significativo del pensiero di Gramsci. Questa sezione, con le traduzioni di Renato Tomei, Enrico Terrinoni, Salvatore Cingari, Antonella De Nicola e Francesca Antonini, si presenta anche come un prezioso contributo alla bibliografia di Buttigieg disponibile in italiano e quindi un servizio utilissimo anche alla ricerca futura. In questo senso si colloca anche l’attenta e preziosa bibliografia delle pubblicazioni gramsciane di Buttigieg curata da Maria Luisa Righi.
La terza sezione del libro propone un ampio sguardo transdisciplinare sulla fortuna di Gramsci nei paesi anglofoni. Alfredo Ferrara firma un saggio su quel capitolo esemplare rappresentato dalla lettura che Stuart Hall fa della stagione del thatcherismo come risposta organica alla crisi, utilizzando non solo le categorie gramsciane (rivoluzione passiva in primo luogo) ma anche una certa analogia fra il cruciale passaggio di fase degli anni Trenta vissuto da Gramsci e quello degli anni Ottanta. Il contributo di Salvatore Cingari, autore anche del saggio introduttivo al volume, cerca di evidenziare alcuni limiti interpretativi della critica “crociana” di Richard Bellamy a Gramsci, ricostruendo il percorso dello studioso inglese dagli anni Ottanta a quelli della Terza via blaireana. Non meno interessante è il contributo di Giovanni Pizza, che dimostra la perdurante influenza di Gramsci sull’antropologia anglofona contemporanea, e propone un costante confronto con la più generale evoluzione di questo campo di studi in Italia e in Europa.
Anna Rita Gabellone propone un argomento certamente poco frequentato e di particolare interesse: le considerazioni critiche di Sylvia Pankhurst sul tema dei Consigli di fabbrica, consegnate al suo quaderno privato ad oggi inedito. Il tema riapre la questione del rapporto del Partito italiano delle origini con l’emancipazione femminile a livello internazionale e potrebbe certamente aprire nuovi scenari d’indagine. L’interesse di Pankhurst per Gramsci, inoltre, mostra che la conoscenza di Gramsci in Gran Bretagna precede di molto la più nota e studiata stagione del secondo dopoguerra.
La cornice generale dell’intero lavoro è offerta dal contributo di Derek Boothman, e riguarda la natura stessa della traduzione come ponte fra culture. In Gramsci la “traducibilità dei linguaggi” è un caposaldo teorico ineludibile, una vera e propria “concezione del mondo”. «Il vero traduttore – scrive Boothman – è la comunità di arrivo di un discorso, che deve decidere essa stessa se e come vuole incorporare un concetto nella propria cultura». La lingua, insomma, non basta a far passare le idee: è necessaria anche una disponibilità, un ambiente, un contesto: specialmente nel caso di un pensiero complesso e a tratti eterodosso come quello gramsciano.
Non è un caso che fra le più recenti pubblicazioni di ambito gramsciano molte si concentrino proprio sulla traduzione, sul passaggio fra culture, sulla traducibilità, e vedo certamente un filo rosso che lega questo libro a Gramsci in Brasile. Un esempio riuscito di traducibilità filosofica, a cura di Gianni Fresu, Luciana Aliaga e Marcos Del Roio (Meltemi 2022), e L’Europa di Gramsci. Filosofia, letteratura e traducibilità, a cura di Lelio Laporta e Francesco Marola (Bordeaux 2022). E, per andare leggermente più indietro, alla collana Studi gramsciani nel mondo (Il Mulino, Fondazione Gramsci) e alla valorizzazione che delle traduzioni gramsciane è stata fatta dall’Edizione nazionale delle Opere di Antonio Gramsci a cura della Fondazione Gramsci (Treccani).
Manca Buttigieg, ma il solco è segnato.