A colloquio con la storica Michela Ponzani, autrice di Processo alla Resistenza, appena pubblicato da Einaudi e che sarà presentato in occasione del Festival della Resistenza a Roma

Processo alla Resistenza, con questo titolo fortemente rievocativo, quasi epico, del suo libro pubblicato da Einaudi, Michela Ponzani, giovane docente di storia contemporanea all’Università degli studi di Roma Tor Vergata, denuncia una “rimozione dalla memoria collettiva”, la dimenticanza di un valore, e ancora di più, il tentativo ripetuto di omologare la parte fondamentale della guerra al nazifascismo. Il  processo del titolo è quello dibattuto nelle aule giudiziarie dopo il 1945, sulla presenza di atti violenti e omicidi nel processo storico che ha portato alla Liberazione. Una discussione che, in tutti gli anni a seguire, fino ad oggi, ha infiammato il mondo mediatico, creando distorsioni, manipolazioni e luoghi comuni anti resistenziali.
Un lavoro ponderoso, otto capitoli ricchi di ricerche, fonti storiche, citazioni, fatti narrati con la versatilità dell’esperienza di docente e di conduttrice e autrice per Rai Storia.

Il libro termina con un capitolo conclusivo dal provocatorio titolo “Ma che dobbiamo festeggiare?” Da qui comincia la nostra intervista realizzata in occasione della presentazione del volume a Roma il 20 aprile al Teatro Manzoni: “In realtà è una citazione di un titolo giornalistico scritto da Almirante nel 1955,in occasione del primo discorso pronunciato dal presidente Gronchi per il decennale della Liberazione”, risponde Ponzani. “Come a dire che non c’erano vincitori e vinti, non c’era chi stava dalla parte giusta, né c’era stato chi ci aveva liberato, tanto gli americani sarebbero arrivati lo stesso…. Quella era un’Italia alla ricerca di radici identitarie, impegnata a rincorrere una falsa “pacificazione”. Attraverso gli anni, solo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha sentito il compito di rimettere al centro del discorso pubblico il carattere antifascista della Resistenza. Oggi forse festeggiamo questa presa di posizione”.
Nel 2018 Simonetta Fiori su Repubblica scriveva: ”Da come celebriamo la nostra festa civile capiamo lo stato di salute del nostro Paese.”, lei è d’accordo?
E’ un po’ quel che stavamo dicendo, nel tempo la narrazione “bonaria” del fascismo che in fondo avrebbe, secondo alcuni, fatto anche cose giuste, al pari del nazionalsocialismo tedesco, ha creato quella che a me appare come una “zona grigia”, nel Paese, nella stampa. Basti pensare ai tanti articoli di Indro Montanelli in proposito, a giornalisti revisionisti come Gianpaolo Pansa…negli anni la vulgata neofascista accreditava gli uomini della Repubblica sociale come “salvatori”, riabilitando ex fascisti e collaborazionisti della Rsi, autori di stragi e crimini contro civili perché “costretti ad obbedire ad ordini superiori”. Pensiamo a Priebke, tenuto in salvo in un appartamento, reo confesso, mai pentito. Alla fine i partigiani venivano dipinti come pericolosi fuorilegge, espressione della violenza della guerra. Pensiamo venendo ai giorni nostri alle sortite del presidente del Senato Ignazio Benito La Russa sulle rappresaglie di partigiani a via Rasella che, a suo dire, sarebbero state perpetrare contro un “gruppo di musicisti in pensione….
Negazione pervicace della realtà storica ed umana che l’Anpi ha stigmatizzato nella manifestazione  a Roma con lo striscione ”Non erano musicisti-23 Marzo 1944 a via Rasella”, alla quale ora seguiranno cerimonie in onore delle donne partigiane, a via Urbana, al Foro Traiano e a via Tasso. Per lei cosa vuol dire oggi essere antifascisti ?
Vuol dire avere una memoria collettiva della Storia e non una memoria “condivisa”, altrimenti, come è sempre successo fino ad ora, ogni anno, in prossimità del 25 aprile, si risveglia una polemica da “derby” di calcio, una non appartenenza, in fondo indifferenza di fronte ai principi della nostra democrazia.
Forse l’antifascismo è stato “appannato” da una massiccia presenza del Pci, alle sue origini ? Potrebbe essere stata questa una ragione di esclusione?
C’è stato un momento in cui le cose collimavano, ed è vero che la sinistra di allora (che non era tanto nell’apparato quanto tra operai e contadini) ha pagato il prezzo più alto. Ma era appunto il periodo in cui c’era solo il Pci a difendere le classi più deboli. Poi è stato diverso”
Qualche storico ha rimproverato alla sinistra di non aver tenuto in vita la tradizione antifascista, è d’accordo ?
Il centrosinistra postcomunista ha rinnegato i propri valori, facendo una politica di retroguardia (ricordiamoci le parole di Luciano Violante che nel suo discorso di insediamento da presidente della Camera equiparò partigiani e ragazzi di Salò, pensiamo al tentativo di riscrivere la Costituzione con le forze di centro-destra. E più in generale al tentativo di riscrivere la storia del Novecento…
Il sottotitolo del suo libro recita: “l’eredità della guerra partigiana nella repubblica” qual è l’eredità?
Saper guardare agli errori, a chi è rimasto fermo, senza mai agire con gli altri. Saper vedere anche la vicenda umana di quel gruppo di uomini e donne, il cui rapporto con il popolo ha avuto anche conflitti, ma che da questo è sempre stato aiutato, ha avuto rifugio e armi. Ereditare quei valori vuol dire non cristallizzare questa parte di Storia, come un monumento, la lezione profonda è politica, è la condanna dell’individualismo, del proprio tornaconto, in favore di una partecipazione democratica.