In occasione della festa del 25 aprile ripubblichiamo questo articolo dello psichiatra dell’Analisi collettiva uscito su Left del 27 aprile 2012

E la direttrice editoriale disse: Venticinque motivi per una liberazione. 25 aprile: un numero, una parola diventarono, immediatamente, un fascio di luce intensa che cancellarono tutte le cose che erano intorno a me. Nella mente c’erano soltanto immagini. L’una disegnava un bimbo in mezzo ai grandi che udiva la dichiarazione di guerra di Mussolini. L’altra disegnava la piazza medievale di Fabriano in cui un ragazzino, in mezzo ad una folla ascoltava la voce che urlava: Liberazione. Aveva lasciato la vita libera che lo vedeva correre per i campi e le colline, carezzare i cavalli e le mucche, nascondendo la forza dell’opposizione e del rifiuto cosciente.
Nessuno lo guardava ed egli faceva il solitario strano che, irresponsabile, non stava mai a casa e voleva non essere visto. Andava, in verità, a sussurrare e gridare ai giovani contadini, che avevano un grosso giocattolo che si chiamava mitra, “Scappa scappa”. Arrivarono poi i soldati inglesi, americani e polacchi e tornò con la famiglia, in città. Usciva di casa e vedeva, davanti a sé, la strada dritta che percorreva con calma. Non incontrava, “casualmente”, più Gianna, la ragazzina dalla treccia nera con cui aveva giocato prima della guerra. Andava nella piazza centrale per rivedere quel 25 luglio 1943 quando liberazione fu gettare la grossa testa di gesso di Mussolini dall’alto degli spalti del bianco castello rinascimentale. Il 25 aprile 1945 era tornato da pochi giorni dopo essere stato operato all’occhio ferito da un gesto strano, incomprensibile, di un compagno di scuola. Ed il ragazzino che, solo usciva di casa, non aveva più la solitudine di quando correva per campi e colline e, nascosto da siepi ed alberi, gridava agli imboscati che non si vedevano e sembravano nessuno, “Stanno arrivando, stanno arrivando”. Me lo aveva detto mio padre che sentiva le voci quando curava i malati e operava i feriti.
Ora, tornato alla normalità di una vita senza avventura e il rischio di morire, pensava ed osservava in silenzio il movimento degli esseri umani simile a se stesso. Ma sono certo che la memoria dei campi e colline, degli armenti e bovini, della vita semplice dei contadini non era perduta. Ora dimenticata, la vita “altra” che, dopo i 6-7-8 anni si era ricreata a 12-13 simile e, forse, diversa. E rimemoravo guardando dal loggiato di S. Francesco il passeggiare degli altri, le squadre nazifasciste che piombavano in casa, di giorno, con gran fracasso. Rimemoravo le squadre partigiane che piombavano, di notte, in silenzio, in casa. E, quando dissero: le donne e bambini a sinistra, gli uomini a destra, domandai: io dove vado? Sorrise. Ed, a quel tempo, era simpatia che aveva in sé il pensiero che rifiutava il nazifascismo, nonostante che tutta l’infanzia si fosse svolta sotto il regime e la cosiddetta cultura fascista. Ora pensavo e cercavo di comprendere la differenza tra le due squadre dai vestiti diversi, dall’assenza del sorriso nei nazifascisti con cui non ho mai parlato. Quando sparavano sembravano uguali ma il mio corpo aveva una repulsione da antipatia per i nazifascisti, simpatia e gioia nello stare con i partigiani. Mi chiedevo, seduto sotto gli archi del loggiato S. Francesco, qual era la diversità. E, forse, prima di giungere a comprendere il pensiero e le ideologie che guidavano il comportamento degli uni e degli altri, tentai di “vedere” la realtà non manifesta della mente. Pensai agli affetti, all’odio ed alla rabbia, e, non ho il coraggio di dirlo, forse vidi che nei fascisti c’era l’odio freddo, nei partigiani era rabbia…e lotta per la libertà.
Nei nazisti c’era un comportamento lucido, determinato da una razionalità fredda. Forse l’ho verbalizzato dopo anche se, sono certo, che nei nazifascisti non esisteva il rapporto interumano. L’altro, non uguale a se stesso, non era realtà umana. Non era diverso era un “non” come può essere la “diversità” tra animato ed inanimato. Sapevo che nei partigiani c’era l’idea dell’uguaglianza. È necessario, ora, chiedere perdono se scrivere questi avvenimenti, non è dovuto a ricordi esatti. Sono memorie ed esse ricreano i pensieri ed i fatti, non li riproducono uguali a come sono stati percepiti. La registrazione di essi passa attraverso una dimenticanza che è una sparizione di essi.
Ma non è “come se non fossero mai esistiti”. Spariscono e riappaiono. C’è, nel pensiero che non è coscienza, una intelligenza che è fantasia. Ed ora la memoria mi riporta alla mente le parole “combattenti per la libertà”. Saltando nel 1945, venne la festa della Liberazione. E mi chiedo, e forse mi chiesi, libertà e liberazione sono sinonimi? Vedo il No che, esplicitamente, compare. Liberazione fu un fatto politico, una guerra per la libertà dall’oppressione e dalla violenza nazifascista. La libertà è un movimento ed un processo dell’essere che ricerca la verità di se stesso.
E forse, mi sento ormai lontano, ebbi un’intuizione che elaborai poi, per tutta la vita. Compresi, presto, che la liberazione ottenuta non era libertà dell’essere umano. E pensai al “conosci te stesso” delle parole scritte nel tempio di Delfi. E sapevo già che, per ottenere la libertà, non bastava la conoscenza. Era necessaria l’elaborazione di ciò che si era visto di se stessi. Era necessaria una prassi dell’essere…nato. Mi domandai, ad un certo momento della vita: ma si conosce il pensiero umano che non è coscienza? La risposta venne ricordando il termine che avevo sempre legato al fascismo: stupidità. Poi vidi che il termine razionalità con cui si era costituita l’identità umana, era associato all’impossibilità di comprendere il pensiero che non era ricordo cosciente e linguaggio articolato. Poi lasciai Fabriano e… fu una liberazione, lasciai Venezia e fu una liberazione, lasciai Padova e fu una liberazione, lasciai la società di psicoanalisi e fu una liberazione. Lasciai Villa Massimo, Istituto di psichiatria, e fu una liberazione. Ma, certamente,
avevo dentro di me, e non soltanto nella mente ma nella fantasia, la parola libertà. Penso a quando, a sei anni, mi portarono via dal paesello natìo.