Nel libro “Moro rapito dalle Brigate rosse” Ivo Mej ricostruisce – squadernando una importante messe di documenti – i giorni del rapimento di Aldo Moro raccontando in particolare come il 16 e 17 marzo 1978 furono rappresentati dai media. Quel che ne esce va ben al di là della cronaca. Ciò che ne emerge è una vera e propria autobiografia della nazione. In filigrana, pagina dopo pagina, compare l’immagine di una Italia sotto choc, impietrita, che si fa il segno della croce piuttosto che cercare di interrogarsi sull’accaduto e cercare di capire. Nell’anniversario del ritrovamento del corpo di Aldo Moro, barbaramente e vigliaccamente assassinato dai terroristi delle Br il 9 maggio 1978, abbiamo rivolto qualche domanda al saggista, autore di programmi tv e giornalista di La7.
Ivo Mej, studiando le carte e i servizi giornalistici di allora che idea ti sei fatto della paralisi generale di quei giorni e del ruolo che giocarono gli stessi mass media nel determinarla? «I mass media italiani vengono “scoperti” in quella tragica occasione come mezzi di manipolazione di massa. Pesò l’azione dell’agente Cia spacciato per consulente del ministro dell’Interno Cossiga, Steve Pieczienik, nei fatti un vero e proprio “controllore” dell’ortodossia atlantica del nostro Paese», risponde il giornalista e scrittore, che aggiunge: «Grazie a lui la linea di assoluta intransigenza nella trattativa con le Brigate rosse diventò la narrazione ufficiale e la sola accettata, malgrado i pur energici tentativi di Craxi di proporre un atteggiamento istituzionale diverso. La paralisi fu determinata a priori da chi aveva in mano le leve del potere e dell’informazione, che a ben vedere altri non era che la P2».
Con una scrittura narrativa incalzante, drammatica, quasi cinematografica nel libro tornano a scorrere le immagini di quella storica, interminabile, diretta del Tg1 durata 86 minuti. «Di fatto durò tutto il giorno. Era iniziato l’effetto Moro con il triste rombo degli elicotteri sopra Monte Mario», annota Mej nel libro edito da Giubilei Regnani. Subito dopo il comitato del ministero presieduto da Cossiga si mise in moto per cercare Moro. In quel comitato, ricostruisce, figuravano affiliati alla Loggia massonica P2 di Licio Gelli. Un’ombra, quella della P2, che si allunga su molte pagine nere della nostra storia. Basti pensare alla strage di Bologna e alla recente sentenza della Corte di Assise di Bologna. Che ne pensi? «Che ne penso?», mi incalza Mej a bruciapelo: «Ci sono fior di libri che sviscerano la storia della P2 e dell’Italia piduista molto meglio del mio, che la sfiora appena». Passando in rapida rassegna l’ampia saggistica sull’argomento, suggerisce di leggere “ll segreto del gran maestro” di Gianluca Barbera, «veramente illuminante -dice – sulla nascita, la crescita e la carriera di Licio Gelli, tutta all’ombra del fascismo prima e delle varie destre retrive poi».
Nella prefazione al libro “Moro rapito” il sociologo Domenico De Masi ricorda che il 9 maggio, nello stesso giorno in cui venne ritrovato il corpo di Aldo Moro, a Cinisi, venne ucciso dalla mafia Peppino Impastato. Ma la sua uccisione non ebbe altrettanta eco. Come invece meritava e merita la sua straordinaria storia di giornalista radiofonico e attivista. «La morte di un giornalista antimafia nel 1979 poteva competere con quella del presidente della Dc?» mi domanda Ivo Mej per tutta risposta ricordando che «oltretutto in quegli anni la lotta alla mafia non era certo una priorità, viste le infinite connivenze ed intrecci che aveva con la politica. Basta un nome: Salvo Lima».
Fra i vari documenti che in appendice arricchiscono il libro ritroviamo anche un frammento di Dario Fo che ebbe a dire: «Il rapimento Moro è la storia che non sono mai riuscito a raccontare… ma tre anni prima avevo scritto una pièce in cui si immaginava il rapimento di un altro democristiano, Fanfani, da parte di Giulio Andreotti, per toglierlo di mezzo». Cosa ci suggeriscono oggi quelle sue parole? «Le parole di Dario Fo, un grande precursore in molte cose, suggeriscono che certi eventi sono prevedibili da chi sappia leggere la realtà senza farsi influenzare dal racconto mainstream che cerca di imporre una sola verità» commenta Mej da profondo conoscitore del mondo dell’informazione e della Tv dove lavora da molti anni. E allargando lo sguardo alle narrazioni embedded di oggi aggiunge: «Siamo ormai in pieno 1984 orwelliano e la guerra in Ucraina con tanto di forniture belliche ne sono la sconcertante prova».
Parlando di attualità politica italiana il pensiero corre anche al 25 aprile 2023 segnato da omissioni e tentativi di riscrivere la storia da parte di esponenti del governo Meloni e della seconda carica dello Stato. Maldestri tentativi revisionisti per negare che la Resistenza fu internazionalista e trasversale, animata da azionisti (élite socialista e laica) e da comunisti ma anche da liberali, monarchici e cattolici. A questo proposito torna alla mente ciò che Aldo Moro disse il 13 marzo 1947 in risposta al collega di destra, l’onorevole Lucifero, che proponeva una Costituzione afascista anziché antifascista: «Non possiamo fare una Costituzione afascista – gli rispose Moro -. Cioè non possiamo prescindere da quello che è stato nel nostro Paese un movimento storico che nella sua negatività ha travolto per anni le coscienze e le istituzioni. Non possiamo dimenticare quello che è stato, perché questa Costituzione oggi emerge da quella Resistenza, da quella lotta, da quella negazione, per le quali ci siamo trovati insieme sul fronte della resistenza e della guerra rivoluzionaria ed ora ci troviamo insieme per questo impegno di affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita sociale. Non possiamo, ripeto, se non vogliamo fare della Costituzione uno strumento inefficiente, prescindere da questa comune, costante rivendicazione di libertà e di giustizia». Questa fu la linea che prevalse nella sede dell’Assemblea costituente.
«Moro fu una figura senz’altro controversa – chiosa Mej -. Sinceramente antifascista, certamente cattolico, anche sinceramente amante del proprio Paese». Ma, prosegue l’autore di “Moro rapito dalle Brigate rosse”, «anche autenticamente fumoso in tutte le sue comunicazioni ufficiali (ricordiamo che durante un suo discorso all’Onu i traduttori simultanei non riuscivano a capire cosa stesse dicendo). Possiamo immaginare – prosegue Mej – che se fosse vivo oggi sarebbe senz’altro deluso dalla china presa dalla politica italiana nel suo complesso. Per lui la politica era un mezzo – complesso e spesso incomprensibile ai più – volto comunque a rispondere ai bisogni del popolo, a risolvere conflitti sociali, ad alleviare lo stato dei più sfortunati. Uno Stato che dalla guerra, dalla sconfitta, dall’umiliazione aveva tratto tutti gli elementi per risollevarsi e offrire speranze». Chi e che cosa rappresentava al fondo? «Moro – conclude Mej – rappresentò la politica del miracolo economico italiano, del buon senso che tentava di rimettere insieme i cocci di una società sgretolata, di riunire rossi e bianchi, addirittura, possibilmente, senza ostracizzare neanche i neri». Il “tutto è uguale a tutto” del democristiano doc.