Distruggere Assange, per farla finita con la libertà d’informazione: questo il titolo, diretto come un pugno nello stomaco del libro di Sara Chessa, giornalista che collabora con Indipendent Australia, con Global Insight, ma soprattutto attivista dell’organizzazione Bridges for Media freedom e della ong Blueprint for Free Speech.
Impegnata nella difesa dei diritti umani e della libertà di informazione e pensiero, in quasi trecento pagine di testimonianze, interviste, incontri, resoconti di udienze riporta la nostra attenzione sul caso del giornalista e fondatore di Wikileaks, Julian Assange incarcerato per aver fatto informazione (a cui Left ha dedicato molti articoli, una copertina e il libro Free Assange ndr).
Abbiamo conosciuto Sara Chessa durante la Giornata mondiale per la libertà di stampa quando il suo libro, edito da Castelvecchi, è stato presentato a Roma, con lei che è intervenuta online da Londra.
«Per me è stato particolarmente importante parlare in quella giornata perché la vicenda di Assange rappresenta il caso-chiave di fronte al quale la situazione di tutti i giornalisti può cambiare», esordisce Chessa che dal 2019 segue da vicino la storia di Assange, attualmente rinchiuso in un carcere di massima sicurezza nel Regno Unito e in attesa di essere estradato negli Usa dove rischia più di 150 anni di carcere per aver diffuso documenti secretati che hanno permesso di conoscere i crimini di guerra commessi dagli Usa in Iraq e non solo.
«Come giornalista conosco la vicenda di Julian Assange fin dalla pubblicazione dei “Diari di guerra in Iraq”, testimoniati da Wikileaks, poi ho sentito l’esigenza di partecipare sempre più da vicino al lavoro in difesa dei diritti umani attraverso l’attività delle ong con cui lavoro». Alla presentazione romana, in video- conferenza dalla capitale britannica, (proprio dove Julian Assange è detenuto) Sara Chessa ha chiesto ai presenti di chiudere gli occhi per un momento e provare ad immaginarsi al posto di Julian, nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh. «Ho chiesto di provare a immaginare e sentire come può stare una persona – dice l’autrice di Distruggere Assange – che sapeva fin dall’inizio di poter andare in carcere, di essere esposto a possibili torture, ma è andato avanti lo stesso con rara integrità, di fronte al suo dovere, come giornalista, di salvaguardare il diritto del pubblico alla conoscenza. E mi sono chiesta: sapremmo fare lo stesso?». Ne saremmo capaci? Ci domandiamo insieme a lei. «Dobbiamo aspirare a servire la conoscenza», rimarca Sara. Che tornando all’urgenza del caso Assange ci ricorda: «Ora dobbiamo sapere se lui sarà estradato fuori dal Regno Unito. Se accadrà, costituirà un precedente, un fatto per cui ognuno di noi potrà essere colpito per aver messo in imbarazzo una grande potenza, come gli Stati Uniti. In un altro caso potrà essere la Cina, la Russia e così via. Diventerà difficile non avere paura, siamo umani, e rinunceremo a fornire le informazioni che conosciamo. Dobbiamo impedire che questo accada, può essere una trappola per tutti».
In Italia ci sono state dimostrazioni di solidarietà da parte della Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi), Left con Pressenza ha organizzato dal vivo e online una 24 ore non stop free Assange con attivisti da tutto il mondo, alcuni quotidiani hanno avviato una raccolta firme per la liberazione di Assange, la giornalista Stefania Maurizi, che è stata stretta collaboratrice di Assange, ha chiesto alle autorità americane accesso agli atti che le stato negato. Pensi che si dovrebbero muovere le istituzioni fin qui troppo tiepide a cominciare da quella italiana?
«Tutti i paesi occidentali hanno una bella responsabilità – risponde Chessa – In Europa diversi parlamentari hanno provato ad intervenire come Andrej Hunko, che si è impegnato e si impegna per la liberazione di Julian. In Italia il senatore Gianni Marilotti come presidente della Biblioteca del Senato ha chiesto la desecretazione degli atti delle Commissioni d’inchiesta parlamentari nella scorsa legislatura e l’onorevole Pino Cabras, che ha sempre, come politico e come giornalista, difeso Assange ha promosso una mozione di riconoscimento dello status di rifugiato politico per il fondatore di Wikileaks. Ma il fatto è che la soluzione di questo processo può essere solo diplomatica. Il sistema giudiziario britannico ha ignorato sistematicamente tutti i punti chiave che permetterebbero di bloccare l’estradizione di Assange. Di fronte a tutto questo le istituzioni nei Paesi occidentali non possono essere tiepide». Nello stesso giorno dell’incoronazione di Carlo III, facendo eco alla lettera che lo stesso Assange ha scritto al re, il presidente brasiliano Lula si è rivolto alle autorità inglesi chiedendo la liberazione di Assange. Ma in Europa nessun altro alto esponente politico ha fatto lo stesso.
«I governi alleati degli Stati Uniti devono dire chiaramente che il partner americano sta sbagliando, sta calpestando la propria Costituzione. Ma sono pavidi – accusa Sara Chessa -.Evitano di parlare, si gloriano di questa alleanza ma non si pronunciano sulla questione. Devono “spingere”: dire a Biden che deve archiviare le accuse ad Assange perché ne va della libertà di informazione di tutto il pianeta. E noi come società civile abbiamo il dovere di fare pressione perché i nostri governi parlino». Intanto il tempo corre le condizioni di salute di Julian Assange si fanno sempre più precarie. L’avvocata e compagna di Assange, Stella Morris ha più volte lanciato l’allarme. Che possibilità ci sono ad oggi di impedire l’ordine di estradizione che pende sulla testa di Assange e che permetterebbe di tradurlo nelle carceri americane, chiediamo a Sara Chessa cercando di capire meglio cosa si muove o meno Oltremanica. «Il sindacato britannico dei giornalisti, le Ong, tutti noi, speriamo nella possibilità di impedirla, speriamo nella possibilità che la causa arrivi nelle Corti britanniche perché tutto sarebbe più veloce. Se dovesse accadere che Assange non possa presentare appello contro la sentenza di condanna, emessa in primo grado, allora il team legale dovrà rivolgersi alla Corte Europea per i diritti dell’uomo, che però porta avanti cause in tempi lunghissimi. Persone vicine al team legale dicono che ci sarebbe la possibilità di ingiunzione per permettere ad Assange di restare in Europa durante il periodo di attesa. Sarebbe una buona notizia. Ma il punto è che resterebbe comunque dentro un carcere, rischia di morire lì dentro».
Oltre al rigore e alla passione civile che traspare da Distruggere Assange nella prefazione del libro colpisce la definizione di “diario emotivo” attribuita a questo testo. «Sì – accenna Sara Chessa sorridendo – qui racconto tutto il mio percorso da cronista e attivista dal momento dell’arresto di Assange in poi, annoto tutte le udienze, ripercorrendo l’intera storia come un diario, ci tenevo che tutti conoscessero quanti si sono impegnati per la liberazione di Julian». E aggiunge: «Da questo “diario” si vede anche il tentativo di distruggere l’intera filiera dell’informazione, attaccandola in più punti, per esempio quello fondamentale del rapporto con le fonti giornalistiche, essenziali al nostro lavoro». Ne emerge un percorso emotivamente coinvolgente e molto politico… «Nel libro compaiono molte persone di cui ho voluto raccontare la lotta, tra queste il padre di Assange, John Shipton, per il quale nutro un profondo sentimento di amicizia. C’è una sua intervista nel libro dalla quale traspare un po’ del suo carattere: sai, spesso in mezzo a traversie e sofferenze ci si indurisce, lui, vicino all’ottantina, è rimasto sempre la persona straordinaria che è. Ricordo che spesso era lui a rincuorarci quando eravamo stanchi e scoraggiati, prendeva i nostri sentimenti negativi e li trasformava con dolcezza e determinazione. Certo lo faceva per suo figlio ma anche per il grande amore per la difesa dei diritti umani che considera la cosa più preziosa che abbiamo. Ti auguro di conoscerlo».
Da ultimo una domanda se possibile ancor più impegnativa: come vede Sara Chessa, dal suo osservatorio, il futuro delle democrazie occidentali? «Lo vedo in mano ai cittadini come noi, se abbiamo il coraggio di difendere i principi fondamentali della libertà di pensiero, la libertà vera dei media e i diritti umani non negoziabili, pur violati decine di volte. L’ex ministro per gli Affari interni islandese Jònasson, nel 2011, quando l’Fbi è andato senza autorizzazione in Islanda con la scusa di difenderla da attacchi hacker, non li ha fatti entrare nel Paese.Non ha avuto alcun servilismo da politico di fronte ad emissari di una superpotenza. È questo l’atteggiamento che dà speranza. Se vogliamo possiamo difendere i nostri valori, possiamo agire nella direzione coerente che abbiamo messo a fondamento della democrazia».