Mai così tante esecuzioni dal 2017. È agghiacciante il quadro che emerge dal nuovo rapporto di Amnesty International sulla pena di morte nel 2022. Le esecuzioni registrate sono state ben 883 in 20 Stati soprattutto in Medio Oriente e Africa del nord, senza contare le condanne che potrebbero essere state eseguite in Cina e in Corea del Nord di cui cui poco sappiamo. Per quanto non si conosca il numero esatto di esecuzioni in Cina, dai dati che Amnesty ha raccolto risulta che sia in testa alla lista delle esecuzioni, seguita a ruota da Iran, Arabia Saudita, Egitto e Stati Uniti d’America.
Quanto all‘Arabia Saudita – decantata dall’ex premier Renzi come nuova patria del Rinascimento– si è “distinta” con 81 esecuzioni in un solo giorno.
Ma cerchiamo di analizzare il quadro più in profondità: «Aumentando il numero delle esecuzioni, gli Stati dell’area Medio Oriente e dell’Africa del Nord hanno violato il diritto internazionale e mostrato un profondo disprezzo per la vita umana. Il numero delle persone private della loro vita è enormemente cresciuto: l’Arabia Saudita ha incredibilmente messo a morte 81 prigionieri in un solo giorno. Nella seconda parte dell’anno, nel disperato tentativo di stroncare le proteste popolari, l’Iran ha messo a morte persone che avevano solo esercitato il loro diritto di protesta», dichiara Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International. «Il dato preoccupante – prosegue la rappresentante di Amnesty – è che il 90 per cento delle esecuzioni registrate, dunque esclusa la Cina, ha avuto luogo in soli tre Paesi dell’area Medio Oriente e dell’ Africa del Nord: in Iran sono salite da 314 nel 2021 a 576 nel 2022; in Arabia Saudita sono triplicate, da 65 nel 2021 a 196 nel 2022, il più alto numero registrato da Amnesty International in 30 anni; e in Egitto, dove sono stati messi a morte 24 prigionieri».
Altro segnale negativo è che alcuni Stati abbiano ripreso a eseguire condanne a morte. È accaduto in particolare in Stati come Afghanistan tornato nelle mani dei talebani, ma anche in Kuwait e una città Stato per tanti versi avanzatissima (non solo sul piano economico) come Singapore, dove proprio oggi 16 maggio, è annunciata una nuova condanna a morte di un uomo di 37 anni di cui sappiamo solo che è singaporiano-malese. Il crimine? traffico di un chilo e mezzo di cannabis… (Sul caso Singapore avremo modo di tornare a con un reportage ndr ).
Dal rapporto di Amnesty risulta che le persone mandate alla forca per “droga” è più che raddoppiato rispetto al 2021. «Le esecuzioni per reati di droga violano il diritto internazionale dei diritti umani, secondo il quale le esecuzioni dovrebbero limitarsi ai “reati più gravi”, come l’omicidio intenzionale», scrive Amnesty. Ma noi ci permettiamo di dire di più: che è sempre insensato procedere secondo la legge del taglione, accecati da un’idea di giustizia che è solo vendetta. Tornando al tema “reati di droga” sappiamo che sono state eseguite pene capitali in Cina (sebbene non se ne conosca il numero), Arabia Saudita (57), Iran (255) e Singapore (11) e hanno costituito il 37 per cento del totale delle esecuzioni registrate da Amnesty International nel 2022. È probabile che esecuzioni del genere siano avvenute anche in Vietnam – precisa il Rapporto – dove però i dati sulla pena di morte rimangono un segreto di Stato. Nella maggior parte di questi casi queste esecuzioni colpiscono persone svantaggiate.
Un dato molto evidente e particolarmente odioso è l’aumento delle esecuzioni, rispetto al 2021, in Iran (da 314 a 576), dove la pena di morte è comminata a giovanissimi e a esponenti delle minoranze che non hanno compiuto nessun crimine uccisi per il solo fatto di aver protestato contro la teocrazia al potere. E poi in Arabia Saudita, come accennavamo (da 65 a 196) ma anche negli Stati Uniti (da 11 a 18) considerati dai più baluardo di democrazia. «È tempo che i governi e le Nazioni Unite aumentino le pressioni nei confronti di chi si rende responsabile di queste clamorose violazioni dei diritti umani e assicurino la messa in essere di garanzie internazionali», ha sottolineato Callamard presentando il Rapporto.
In questo quadro desolante, qualche piccolo segnale di cambiamento positivo: sei Stati nel 2022, hanno abolito in tutto o in parte la pena di morte. Il Kazakistan, Papua Nuova Guinea, Repubblica Centrafricana e Sierra Leone hanno abolito la pena di morte per tutti i reati, Guinea Equatoriale e Zimbabwe per i reati comuni. «Alla fine del 2022, 112 stati avevano abolito la pena di morte per tutti i reati e altri nove stati l’avevano abolita per i reati comuni. Questa tendenza positiva sta proseguendo nel 2023 – riporta Amnesty-. In Liberia e Ghana sono state avviate iniziative di legge abolizioniste. I governi delle isole Maldive e dello Sri Lanka hanno annunciato che non verrà dato seguito alle condanne a morte; nel parlamento della Malesia sono in discussione proposte di legge per annullare l’obbligatorietà della pena capitale».
«Molti stati continuano a consegnare la pena di morte alla discarica della storia ed è tempo che altri seguano l’esempio. Gli atti di brutalità in Iran, Arabia Saudita, Cina, Corea del Nord e Vietnam appartengono ormai a una minoranza di stati. Ma sono proprio questi stati che devono mettersi al passo coi tempi, proteggere i diritti umani e assicurare giustizia invece di mettere a morte persone», ha aggiunto Callamard. Che aggiunge: «Di fronte a 125 stati membri delle Nazioni Unite, un numero mai così elevato, in favore di una moratoria sulle esecuzioni, non ci siamo mai sentiti così fiduciosi che quell’orrenda punizione possa essere e sarà consegnata agli annali della storia. Ma i tragici dati nel 2022 ci ricordano che non rimanere indifferenti e inoperosi. La nostra campagna continuerà fino a quando la pena di morte non sarà abolita a livello globale».