Dopo che il mese di Ramadan è giunto alla Eid al-Fitr, la conclusione, la situazione politica in Afghanistan continua ad essere drammaticamente instabile. Tra marzo e maggio quattro attentati a Kabul hanno ucciso tredici persone e una decina sono state ferite. L’ultimo il 5 maggio all’aeroporto internazionale della capitale. Il governo afgano nega la stabilizzazione delle forze IS-KP ma l’inasprirsi degli attacchi dal 2021 ad oggi sembra indicare l’esatto opposto. Al centro, una popolazione stremata da quarant’anni di conflitto e una crisi umanitaria che rischia di degenerare in una delle più gravi dell’intera regione.
Nella tradizione coranica il Ramadan rappresenta la commemorazione della prima rivelazione della parola sacra al profeta Maometto. È un tempo di digiuno, astinenza e preghiera. Un mese di distacco dalla quotidianità utile per approfondire quanto di più spirituale le appartiene. A Kabul, la capitale dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, questo periodo da poco giunto al termine è stato il terribile sfondo per una recrudescenza degli attacchi ai danni di autorità e civili.
Nelle prime due settimane di Ramadan solo nella città afgana si sono registrate tre esplosioni nelle vicinanze dei posti di blocco delle forze talebane. Nel pomeriggio del 24 marzo una detonazione artigianale manovrata a distanza nei pressi del viale centrale di Baghe Bala ha gravemente ferito un bambino, mentre il 27 dello stesso mese alle 13:15 locali, un attacco suicida a pochi passi dal ministero degli Affari esteri ha provocato la morte di nove rappresentanti dell’Emirato islamico e quattro civili, oltre al ferimento di quattordici passanti. Alle 19.30 del 4 aprile infine una nuova esplosione nei pressi di Khoja Rawash, il numero di feriti resta sconosciuto.
Alla scia di attacchi esplosivi si sono aggiunti i colpi di arma da fuoco scaricati sul lato est dell’aeroporto internazionale della capitale nel pomeriggio del 5 maggio che hanno ferito gravemente due civili.
Nessun attacco è stato formalmente rivendicato a parte la terribile esplosione kamikaze del 24 marzo firmata dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante per la Provincia di Khorasan (IS-KP), una fazione politico-religiosa nata nel 2015 come costola dello Stato Islamico e violentemente attiva in Afghanistan, Pakistan e Tajikistan.
L’esplosione ha fatto seguito all’uccisione da parte dei servizi segreti afgani di tre rappresentanti delle IS-KP avvenuta nella stessa mattinata nella regione nord di Balkh. Secondo il comunicato diramato dalle autorità, nel raid militare era stato ucciso anche Mavlavi Ziauddin, massimo rappresentante amministrativo dello Stato islamico KP nell’area. Nei giorni precedenti altri attacchi mirati dei servizi segreti afgani avevano portato all’uccisione e all’arresto di numerose figure cardine del gruppo politico-militare nato nel 2015.
Nonostante il governo di Kabul per mezzo del portavoce Zabihullah Mujahid continui a ripetere che «l’Isis è stato in buona parte sconfitto dal governo talebano e non ha più la forza di un anno fa» , i fatti dimostrano una situazione completamente diversa.
Come sottolineato anche da Michael Kurilla, primo ufficiale del Comando centrale delle forze statunitensi (Centcom) durante un incontro ufficiale alla Camera dei Deputati, «Isis ha drammaticamente espanso la propria area di attività e intensificato le proprie azioni in Afghanistan». I recenti eventi di Kabul paiono essere una chiara prova di questa realtà.
Alla base degli attacchi sembra esservi l’avversione dello Stato Islamico verso la politica interna ed estera dei talebani, ritenuta eccessivamente aperta alla influenza statunitense e prosecuzione mascherata dell’internazionalismo del precedente presidente Ashraf Ghani. Questo nonostante l’approccio del governo talebano si stia caratterizzando per una imposizione radicale della sharia come modello di amministrazione e una centralizzazione della religione islamica negli affari di stato.
La recente apertura del governo di Kabul rispetto ai tavoli di negoziato promossi dalle Nazioni Unite a Doha non sembra garantire un miglioramento dei livelli di stabilità interna. Anzi.
Un ulteriore fattore di rischio che minaccia di aumentare il coefficiente di tensione nel Paese è rappresentato dal quantitativo di materiale bellico lasciato dalle forze statunitensi nel corso della rocambolesca evacuazione nell’estate del 2021. Le autorità talebane infatti hanno da poco confermato di aver ultimato i lavori di restaurazione di decine di veicoli militari appartenenti alle forze Nato che erano stati danneggiati durante gli scontri nel Paese. I mezzi pesanti d’assalto saranno utilizzati per scovare ulteriori base dell’Isis e inasprire la stretta contro le sacche di resistenza al potere di Kabul.
Nel cuore di questo clima politico di estrema tensione c’è una popolazione sfiancata da quarant’anni di conflitto ininterrotto, spinta sull’orlo di una crisi umanitaria tra le più gravi dell’intera regione mediorientale. Secondo il World Food Program, nove milioni di persone nel Paese sono a rischio di malnutrizione acuta e severa mentre più della metà vive attualmente al di sotto della soglia della povertà .
L’intervento delle organizzazioni umanitarie nel Paese garantisce un baluardo di protezione dei diritti umani fondamentali nel Paese e la garanzia di servizi sanitari di base divenuti indispensabili soprattutto nei contesti rurali, dove l’accesso limitato rende più difficile la propagazione dei fragili sostegni pubblici.
«La situazione nel Paese è estremamente complessa, siamo in una fase di forte instabilità e il ruolo delle organizzazioni internazionali è fondamentale per garantire un accesso ai diritti di base per migliaia di bambini, donne e sfollati interni ogni giorno – riferisce un rappresentante della rete delle organizzazioni internazionali non governative attive nel Paese -, stiamo negoziando con le autorità afgane per allargare il raggio di intervento delle nostre attività, ci aspettiamo un supporto costante della comunità internazionale in questo senso».
L’appello arriva in un momento in cui la politica internazionale sembra trincerarsi nella volontà di non riconoscere il governo talebano come un contrappunto politico legittimo, abbandonando così più di quaranta milioni di persone in un clima di insicurezza sociale e umanitaria costante.
Il Ramadan di sangue appena giunto nella sua Eid sembra gridare con forza per una nuova apertura e scongiurare il tracollo umanitario dell’intera regione.
(In collaborazione con pressenza.com)
L’autore: Guglielmo Rapino è cooperante internazionale e attivista per i diritti umani