Si riaffacciano, periodicamente, in Italia, le tentazioni presidenzialiste. Uno degli argomenti su cui si fa leva è quello per cui l’elezione diretta del presidente della Repubblica, renderebbe il sistema più democratico.
Vale però la pena di affrontare il tema con attenzione, per verificare se davvero il presidenzialismo sia un modello che si prospetta, nel futuro, come evoluzione naturale della democrazia, o se invece al contrario sia un relitto del passato, un attrezzo desueto e poco funzionale.
Si può cominciare con il ricordare che la riflessione sulle forme di democrazia è immediatamente accompagnata dall’esigenza di frammentare la concentrazione del potere in un solo individuo.
Il principio di separazione dei tre poteri dello Stato risale al ‘700, a Montesquieu, che scrivendo dello spirito delle leggi, affermava come ogni funzione statale (legislativa, amministrativa e giudiziaria) debba essere esercitata da organi diversi, in modo che “il potere arresti il potere”.
Oltrepassate le soglie del nuovo millennio, occorre però chiedersi, se davvero i poteri da tenere separati siano solo tre. E conviene particolarmente chiederselo, nel momento in cui sono ancora vive nella memoria le immagini dei tristi fatti del gennaio 2021, quando i manifestanti pro Trump assalirono il congresso degli Usa per cercare di impedire la transizione presidenziale, e dell’8 gennaio del 2023, con i tumulti di Brasilia.
Rileggendo a mente fredda quei fatti, ci si accorge del principale problema del sistema presidenziale. Manca un arbitro che sia al di sopra delle parti, il cui unico compito sia quello di far rispettare le regole. Quando Trump annunciava che non avrebbe lasciato il potere, nessuno, sopra di lui, poteva richiamarlo all’ordine. Il presidente americano è capo dell’esercito (Commander in Chief), è vertice delle istituzioni, ed è anche il capo del governo, quindi non ha nessuno sopra di lui.
Si comprende allora come, in una democrazia matura, vi sia un ulteriore, fondamentale potere, che merita riconoscimento e tutela, ed è il potere attribuito agli organi deputati al mero rispetto delle regole costituzionali. In termini teorici, si può discutere se questo sia un quarto potere, se sia la somma di tutti gli altri, se sia un potere neutro o meno, così come si discute se il bianco sia un colore, o la compresenza di tutti i colori.
Le riflessioni sulla democrazia matura, per cui potremmo recuperare la definizione di Isonomia (di matrice ateniese), mirano a tracciare un percorso evolutivo: ridurre lo spazio del potere, inteso come scelta arbitraria, per sottomettere ogni, pur minimo, potere, alla regola. E quindi comprimere, bilanciare, frammentare, controllare e regolamentare ogni forma di potere, pubblico o privato, fino a togliergli la caratteristica di potere per far emergere l’essenza di funzione.
La democrazia matura è quindi l’era politica in cui la Regola, democraticamente generata, nel compromesso, nella tutela delle minoranze, nel principio di partecipazione, prevale sull’esercizio arbitrario del potere. Dall’era del predominio della regola sull’arbitrio, nasce il quarto potere. Ciò che rileva è che questo ruolo di garanzia e di vigilanza è essenziale nella democrazia moderna, perché la garantisce nella sua sopravvivenza.
La repubblica presidenziale, tradizionalmente auspicata dalla destra italiana, è invece articolata sui tre poteri canonici. Al presidente della Repubblica, eletto direttamente dal popolo, è attribuito sia il ruolo di vertice dell’Istituzione, che in Italia oggi è svolto dal presidente della Repubblica, sia il ruolo di capo del governo. Introdurre il presidenzialismo in Italia significa quindi eliminare la figura del presidente della Repubblica come la conosciamo noi, di soggetto sopra le parti. Il premier assumerebbe entrambi i ruoli.
Questa semplice considerazione permette di capire perché si tratta di un arretramento. In Italia il presidente della Repubblica è espressione del quarto potere, così come lo sono i presidenti delle Camere, le molteplici autorità indipendenti, i garanti etc. Questi soggetti non hanno solo un ruolo di garanzia, non sono solo àrbitri del rispetto delle regole. Essi incarnano l’Istituzione. L’attuale presidente della Repubblica agisce e deve agire per il bene della collettività nel suo insieme, senza favorire una parte politica. Storicamente questo ruolo sopra le parti è stato interpretato con grande dignità dai presidenti che si sono alternati: Pertini, Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Mattarella. Ciascuno di loro si è anche esposto a critiche, ma non può non emergere il senso complessivo di una funzione rilevante, che è cresciuta nel corso del tempo, l’autorevolezza che deriva dal parlare per l’Istituzione e non per la maggioranza temporaneamente al governo. Ed un effetto simile si è avuto per altre analoghe figure di rilievo (si pensi alla presidente Marta Cartabia della Corte costituzionale).
Prendere il presidente della Repubblica e gettarlo nella mischia di maggioranza e minoranza, costringerlo all’attività spicciola e quotidiana di governo, all’imposizione di tasse ed alle dichiarazioni polemiche contro gli avversari, non sarebbe un progresso. Sarebbe invece una lesione della sua alta dignità. Non è un caso che le figure più rispettate ed amate della politica italiana abbiano rivestito questo ruolo. È un ruolo che migliora la personalità politica: chi si sente chiamato ad essere migliore, spesso lo diventa. Ma ciò che più conta è che sulla dignità di questo ruolo riposa anche una parte della residua capacità degli italiani di identificarsi con la Repubblica. Ciò non significa svilire il ruolo dei politici che si prestano all’attività di governo quotidiana. Tuttavia essi devono sapere che a loro saranno attribuiti pochi meriti, e tutte le disgrazie. Essi hanno anche una funzione di capro espiatorio. Nel frattempo, sopra le parti, a vegliare sulla Repubblica, i cittadini vogliono che vi sia qualcuno che è fuori dall’agone politico, e che è capace di intervenire per stimolare e correggere, per arginare le intemperanze della maggioranza a difesa delle minoranze, per trovare difficili mediazioni nei frangenti più neri. Fondere in una sola figura il ruolo di presidente della Repubblica e quello di presidente del Consiglio, o attribuire ruoli di governo attivo al presidente della Repubblica, non solo non aggiungerebbe nulla, ma sopprimerebbe il ruolo di vigilanza e, ciò che è perfino peggio, la percezione popolare di un garante, che si fa portatore dell’idea stessa della Repubblica. Non è un ruolo da poco. Sarebbe saggio evitare di rinunciarvi.
L’autore: Pietro Adami è avvocato e fa parte dell’associazione Giuristi democratici
Nella foto: Riforme istituzionali, confronto del presidente Meloni con le opposizioni, Roma, 9 maggio 2023