Sale la tensione dopo lo scontro a fuoco tra le milizie talebane e i soldati iraniani che è avvenuto nel distretto di Kang e ha provocato delle vittime. Al centro della contesa c'è il controllo delle risorse idriche del fiume che nasce tra le montagne afgane e sfocia nella provincia iraniana del Sistan

Kabul – «Vuoi la nostra acqua presidente Raisi? Eccola prendila, però per favore non spaventarci con questi modi». In un video intriso di ironia divenuto virale in poche ore lo scorso 19 maggio un generale talebano, armato di secchio davanti a un serbatoio del fiume Helmand, si rivolgeva così al presidente iraniano Ebrahim Raisi che nei giorni precedenti aveva minacciato gravi ripercussioni contro l’Afghanistan nel caso in cui il governo di Kabul non avesse corretto la propria politica di gestione delle risorse idriche del fiume di confine.

Quella che sembrava l’ennesima scaramuccia diplomatica tra Paesi confinanti, è degenerata nell’ultimo weekend in uno scontro a fuoco dove hanno perso la vita almeno due appartenenti alle forze armate iraniane e un soldato talebano. Fonti locali riportano anche la notizia del ferimento di almeno sei militari iraniani e sette afgani, oltre a due civili tra cui un bambino colpito dalle schegge dell’artiglieria pesante.
Lo scontro ha avuto inizio nella mattinata del 27 maggio, quando la guardia nazionale iraniana ha aperto il fuoco contro un convoglio di civili afgani che, secondo fonti vicine a Teheran, stava tentando di trafficare illegalmente narcotici alla frontiera nel distretto di Kang. Agli spari hanno risposto le forze talebane, con colpi di armi leggere e artiglieria.
Secondo Abdulhamid Khorasani, portavoce dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, nel giro di un pomeriggio le milizie talebane hanno sfondato il confine iraniano arrivando ad assediare una delle basi principali della provincia del Sistan. Il negoziato tra i rappresentanti dei due governi ha portato a un cessate il fuoco momentaneo mentre entrambi gli eserciti hanno rinforzato le rispettive presenze al confine. Dopo 24 ore di chiusura completa, la frontiera di Kang è tornata accessibile a pedoni e merci solo nella giornata del 28 maggio.

Nonostante l’attenzione dirottata sulla lotta al narcotraffico, soprattutto di oppio ed efedra, la reale motivazione della contesa che rischia di destabilizzare l’intera regione è senza dubbio la gestione dell’acqua del fiume Helmand, le cui sorgenti si trovano sulle montagne dell’Hindu Kush tra le pendici di Kabul e che scivola fino al territorio iraniano, rappresentando la prima fonte di approvvigionamento idrico di province enormi come il Sistan o Nimroz. Un trattato del 1973 tra i due Paesi sancisce il diritto dell’Iran di ricevere almeno 22 metri cubi di acqua al secondo dal governo afgano ma negli due anni l’accordo sembra non essere stato rispettato dalle autorità talebane, le quali si giustificano sulla base dell’ennesimo anno di siccità (il terzo di fila) e un cambiamento climatico che sembra condannare l’intera regione.

A complicare la situazione è la diga di Kamal Khan nella provincia di Nimroz, una struttura mastodontica inaugurata nel 2021 che mira a garantire l’autosufficienza idrica in suolo afgano e contribuisce all’emancipazione energetica delle principali città del Paese, tutt’ora dipendenti da un punto di vista energetico dallo stesso Iran, oltre che dal Tagikistan e Pakistan.
«Vogliamo che si esegua un’analisi della portata idrica del fiume, questo è un tema tecnico e non può essere definito politicamente dai talebani» tuona il ministro degli Esteri iraniano Hoseein Amir Abdollahian. Il leader afgano Akunzada sembra tutt’altro che persuaso da questa possibilità e la situazione potrebbe aprirsi ad una nuova escalation di violenza nelle ore a venire.

L’instabilità militare dell’area si somma a una situazione particolarmente critica da un punto di vista umanitario. Secondo i dati Onu, al momento in Afghanistan circa 9 milioni di persone sono a rischio di malnutrizione e con il terzo anno di siccità alle porte il Paese potrebbe sprofondare in una crisi alimentare senza precedenti. L’eventualità di un nuovo conflitto armato sembra rappresentare la condanna definitiva per un Paese già profondamente sofferente, stretto sotto il peso di un embargo di fatto imposto dagli Stati Uniti.

Al di là delle strategie diplomatiche, la situazione mostra con lampante evidenza come i cambiamenti climatici a livello globale stiano causando immediate crisi politiche e militari nelle regioni economicamente più fragili, esponendo a un rischio ancora più profondo le terre che hanno vissuto uno stato di conflitto armato dal dopoguerra sino ad oggi. È appena il caso di ricordare che nonostante la mancanza di risorse finanziare, l’esercito talebano ha da poco dichiarato la restaurazione di un intero comparto bellico lasciato dalle forze statunitensi nel 2021.

Nei prossimi giorni si capirà la portata dello scontro e l’interesse dei Paesi occidentali, Stati Uniti in primis, di scendere in campo per una pacificazione dell’area dopo che l’Onu a Doha nelle scorse settimane ha sottolineato l’esigenza di partecipare attivamente alla ricostruzione dell’Afghanistan «nonostante le violazioni dei diritti umani in corso».
I segnali che arrivano da Kabul e Teheran lasciano presagire che lo scontro dello scorso weekend potrebbe non essere l’ultimo.