Totò riferendosi alla morte la aveva descritto come ‘a livella’. L’allusione del genio napoletano a quella sorta di “pareggio di bilancio” che si riferisce alla fine dei giorni non può e non deve riguardare anche il giudizio che lascia la vita del defunto. Oggi è il giorno del cordoglio e del lutto ma anche il giorno dell’esercizio del giudizio ipocrita. In modo ridondante, quasi stucchevole si ripete come il berlusconismo abbia determinato un’epoca; che la figura di Berlusconi rappresenti una sorta di spartiacque tra il prima e il poi. Attraverso questo pedante ritornello si sorvola sul “prima” e sul “poi” più per celebrare che per constatare e analizzare.
Si cerca di non dire che l’Italia che ci lascia Berlusconi è sicuramente un Paese peggiore di quello che ha preceduto la sua “discesa in campo”. Posto che la discesa in campo abbia rappresentato il primo atto di una pantomima che si è protratta da allora fino ad oggi giacché in campo c’era già sotto mentite spoglie, da quel momento ha utilizzato ogni risorsa e ogni energia per snaturare il Paese attraverso lo svuotamento di coscienza politica e la razionale creazione dei presupposti di quell’analfabetismo civile che ancora oggi rappresenta la malattia più grave del nostro Paese. Se il giudizio post mortem non può fare a meno di considerare il Berlusconi pidduista, se non si può giudicare il defunto senza ricordare le vicende relative a Dell’Utri e a quelle di Mangano lo stalliere di Arcore, ancora, se non si può fare a meno di ricordare lo spregiudicato rapporto con le istituzioni che avrebbe dovuto rappresentare e il tentativo reiterato di violentare la Costituzione, se non si può dimenticare il volgare tentativo di dare un prezzo a ogni cosa, soprattutto al corpo delle donne in ogni occasione – solo qualche mese fa aveva promesso ai giocatori del Monza, in cambio di risultati sul campo, un “pullman di troie” – se tutti questi comportamenti, seppur deprecabili, sarebbero solo quelli di un personaggio di dubbia onorabilità e folcloristico, la colpa più grande è quella di aver creato proprio le condizioni perché oggi si dica che c’era un’Italia prima di Berlusconi e ce ne sarà un’altra dopo Berlusconi.
La colpa più grande è quella di aver creato quella “industria culturale” come la chiama il filosofo tedesco Adorno, necessaria a trasformare la società nelle sue viscere. A formare una generazione sui valori del Drive-in, di Non è la Rai o di Colpo grosso. La colpa più grossa è stata quella dell’applicazione razionale del panem et circenses funzionale a svuotare le coscienze. Quello che ci lascia la creazione di questi nuovi valori, di questo nuovo linguaggio è un Paese non più capace di scegliere, che si abbandona alle continue e differenti “mareggiate populiste”. Quello che ci lascia è un Paese senza classe dirigente. Quello che ci lascia è un Paese che si disinteressa di politica, che invece di considerarla come fondamentale esercizio e impegno la percepisce come cosa lontana e magari anche sporca. Quello che ci lascia Berlusconi è un Paese digiuno di strumenti di riflessione critica sul presente. La colpa più grande di Berlusconi dunque, paradossalmente, è forse l’unica colpa che non lo ha portato davanti al giudice in vita. Per questa colpa ci penserà la storia a scrivere sentenze definitive e inequivocabili.
*Pietro Abate è docente di liceo
Nella foto: Silvio Berlusconi, vertice del Partito popolare europeo, 2019