Una riflessione storica sulle conquiste scaturite dalle prime lotte di massa del Novecento. Lotte coraggiose da tenere presenti nella situazione attuale in cui, tra finanziarizzazione del capitale, delocalizzazioni, precarizzazione del lavoro, i diritti sociali e civili sono sotto attacco

Alla fine dell’Ottocento, le mondine che lavoravano nelle risaie della bassa Valle Padana erano certamente tra le lavoratrici più precarie e vulnerabili di quegli anni. Donne per lo più giovani, lavoravano stagionalmente, quasi sempre lontano da casa, sfruttate con arbitrio e prepotenza dai padroni.
La loro controparte era particolarmente agguerrita. Si trattava della nuova borghesia agraria che aveva investito nel passaggio dalla risaia stabile in quella avvicendata con colture asciutte, tra cui le foraggere. Quest’ultime avevano incrementato l’allevamento di stalla garantendo ulteriori, non piccoli profitti.
Eppure le mondine furono protagoniste di lotte epiche e capaci di ottenere risultati straordinari. Insieme agli altri lavoratori stagionali delle campagne, e non solo, avevano la necessità di reagire ad una disoccupazione endemica, aggravata proprio dalle trasformazioni produttive in atto. Necessità che le indusse ad auto-organizzarsi in leghe di resistenza.
Già nei primi anni Novanta dell’800 si batterono per il riconoscimento delle loro organizzazioni e per ottenere, con questo strumento, una trattativa collettiva delle condizioni d’impiego, prima dell’inizio dei lavori.

Lo sciopero era reato e i sindacati, allora ancora agli inizi, erano considerati organizzazioni antistatali. I padroni avevano tutte le armi: ricattarle, licenziarle e sostituirle, far intervenire la polizia. Ciò nonostante, le mondine, in non pochi casi, li costrinsero a cedere; perché per i proprietari l’alternativa era perdere tutto il raccolto e compromettere anche le foraggere necessarie all’allevamento. Per le mondine il punto di forza era rappresentato essenzialmente dalla solidarietà delle altre lavoratrici e lavoratori dei campi ed anche di altre categorie che vivevano in condizioni di sfruttamento ed oppressione non molto dissimili, ma anch’esse organizzate in leghe di resistenza. Solidarietà pronta a scattare contro crumiraggio o repressione.

Nei primi anni del Novecento col riproporsi sistematico delle lotte nelle campagne e nell’industria, specie negli epicentri, le organizzazioni sindacali si rafforzarono fino ad obbligare i proprietari a trattare e ad ottenere, dove erano più forti, come nella bassa pianura emiliana, che non fossero assunte risaiole o altri lavoratori non iscritti alle leghe. Inoltre intervenivano non solo nella contrattazione delle tariffe, ma anche nella distribuzione del lavoro. La conflittualità divenne sempre più aspra giacché comportava un mutamento radicale dei modi d’intendere i rapporti di lavoro da parte dei padroni, consolidati da molto tempo.
Non mancarono effetti politici, anche nazionali, come quelli provocati dallo sciopero generale del 1904 e dalle altre agitazioni di quegli anni. L’acme della conflittualità fu raggiunto nel ciclo di lotte del 1910-13, quando assunse carattere pressoché generalizzato la rivendicazione di attribuire alle organizzazioni di classe la completa gestione del collocamento della manodopera, nonché del controllo delle forme del suo impiego. Rivendicazione portata avanti anche nelle lotte delle mondine e che ebbe larga risonanza politica sia perché provocava contrapposizioni irriducibili, sia perché favoriva i collegamenti fra varie categorie, anche di lavoratori dell’industria. Le mondine non furono in seconda fila neanche nelle lotte contro la disoccupazione nel primo dopoguerra. Infatti nel 1920 anch’esse raggiunsero un obiettivo straordinario: l’imponibile di manodopera. Furono, cioè, capaci d’imporre ai proprietari un determinato numero di lavoratrici in rapporto all’estensione delle risaie in cui venivano impiegate. Conquista straordinaria ed estesa dalla bassa pianura emiliana al Vercellese.

Queste, pur sintetiche, considerazioni inducono lo storico ad un confronto con quanto sono costretti a subire, oggi, gli strati più precari e poveri di lavoratori nei Paesi del tardo capitalismo. Pur in presenza di grandi organizzazioni sindacali, della completa liceità di scioperare e manifestare, nonché con una potenziale influenza politica ben maggiore dei lavoratori di fine Ottocento e primo Novecento, essi sono soggetti a ricatti, precarietà, sfruttamento e perfino peggioramento delle proprie condizioni di lavoro e di vita. Condizioni che per milioni di loro toccano nuove soglie di insostenibilità.
In realtà, specie con la ristrutturazione tardo capitalista dell’ultimo quarantennio, si è determinata una nuova grande sproporzione nei rapporti di forza tra capitale e lavoro a tutto vantaggio del primo. Sproporzione che permette ai gruppi dominanti di esercitare una ancor più forte pressione al ribasso nelle condizioni delle classi lavoratrici.
Tale ristrutturazione, infatti, è stata caratterizzata da tre strategie dagli effetti particolarmente dannosi per i lavoratori.

La prima di tali strategie è consistita nel fatto che nell’ultimo quarantennio imprese transnazionali grandi e medie di tutti i settori hanno delocalizzato parti crescenti delle loro produzioni in Paesi che offrivano grandi riserve di forza lavoro a basso costo e dove essa poteva essere sfruttata senza particolari vincoli legislativi o sindacali. L’entità del fenomeno è stata molto più grande di quanto si è soliti pensare. Ed è andata crescendo fino ad oggi. Infatti nel 2020 lo stock di capitali investiti all’estero da imprese con sede in Italia ha raggiunto il 31,6 % del Pil. In Germania è stato del 52%. In Francia è giunta al 66%. Questo dirottamento di capitali in Paesi con ampie riserve di forza lavoro a bassissimo costo ha comportato il venir meno di grandi numeri di posti di lavoro potenziali nei Paesi d’origine. Infatti, una delocalizzazione pari al 31,6 % del Pil, come quella dall’Italia, corrisponde a 2.865.488 di posti di lavoro potenziali. Il 52% della Germania equivale a 8.681.920 posti di lavoro. Il 66 % della Francia è pari a 7.201.920 posti di lavoro (calcoli basati sulla legge di Okun).

In secondo luogo, grazie ad alcune applicazioni della microelettronica, si è determinato un elevatissimo grado di automazione nella produzione industriale e nella informatizzazione dei servizi. Una forte automazione non era certo un obiettivo nuovo nella storia del capitalismo industriale, che è cominciata proprio con l’introduzione del telaio meccanico e a vapore, ed è proseguita con la catena di montaggio, ecc. Ma nuovi e prima impensabili sono stati i livelli dell’automazione resi possibili dalla rivoluzione microelettronica. Come e molto più delle precedenti, questa automazione ha consentito grandi risparmi di manodopera per produrre una stessa quantità di beni e servizi. Inoltre, essa ha favorito ulteriormente la delocalizzazione in paesi con forza lavoro poco o per nulla qualificata.

La terza strategia è consistita in un’accentuata finanziarizzazione del capitale che ha determinato una rapida crescita di potere ed autonomia delle istituzioni finanziarie. Sicché esse hanno assunto una posizione dominante nell’intero sistema economico. Fenomeno che, a sua volta, ha influito non poco nell’aggravare la mercificazione e marginalizzazione del lavoro.

Tutto ciò ha provocato profondi mutamenti nel mercato internazionale del lavoro.
Conseguenza primaria è stata che imprenditori di tutti i settori hanno avuto mano libera, come mai prima, nel perseguire una forte concorrenza al ribasso delle condizioni di lavoro, della sua retribuzione e regolamentazione.
Inoltre, la delocalizzazione, congiunta all’automazione spinta, resa possibile da determinate applicazioni della microelettronica, ha consentito un’ulteriore dequalificazione, intercambiabilità e, quindi, precarietà del lavoro. Tale precarietà rappresenta un netto peggioramento dei rapporti di lavoro nei Paesi più sviluppati. Ma pesa anche, come un vincolo quasi obbligato, nei Paesi del Sud del mondo destinatari della delocalizzazione, nei quali il super-sfruttamento del lavoro costituisce il maggior fattore “attrattivo” della delocalizzazione produttiva e degli investimenti provenienti dall’estero.

Nei Paesi di più antico sviluppo la crescente mercificazione e precarizzazione del lavoro ha ridotto drasticamente decenni di conquiste sindacali e politiche, che riguardavano non solo le condizioni dei lavoratori, ma la qualità sociale nel suo complesso.
D’altra parte, una delle conseguenze più vistose del rafforzamento dei gruppi di potere dominanti è stata, appunto, una decisa accentuazione della precarietà e intercambiabilità della forza lavoro.
Tale fenomeno è stato il risultato, scientemente perseguito, di nuove forme d’impiego e sfruttamento dei lavoratori, tali da renderli più facilmente dipendenti dagli andamenti di mercato.

Che fare allora? Come riprendere il filo delle lotte per l’affermazione di nuovi diritti sociali, politici e civili che caratterizzarono i “trent’anni gloriosi” in Europa occidentale e negli Usa e che sembrano ora del tutto tramontate?
La riflessione dello storico non può che riandare all’insorgenza della prima conflittualità di massa e ai suoi soggetti, a cominciare proprio da quelli che sembravano i più deboli, ma che si dimostrarono capaci di maggior coraggio e determinazione, come le mondine. E non c’è dubbio che la loro lezione consiste, appunto, nella capacità che ebbero di colpire i punti sensibili dei sistemi produttivi.

La storia insegna anche che un sistema produttivo, pur coeso e potente – anzi tanto più in quanto tale – presenta punti di vulnerabilità. E sono proprio le dimensioni, interdipendenze, complessità che caratterizzano i modelli produttivi del tardo capitalismo a renderli ancor più esposti ai colpi che si sappiano infergere ai suoi modi di funzionamento.
Ma occorre il coraggio, la determinazione di una lotta sistematica, indeflettibile e sostenuta dal consenso di larghe fasce della popolazione. Condizioni, tutte queste, che possono darsi solo se e quando quelle lotte si dimostrino effettivamente in grado di migliorare, anche di poco o poco per volta, le condizioni di lavoro e di vita di chi le conduce.

In altri termini, non basta limitarsi a proclamare obiettivi, pur giusti, di una lotta. Non basta esporre e divulgare programmi politici, per quanto credibili e coerenti possano essere. Per poter cambiare i rapporti di forza nell’agone sociale e produrre trasformazioni non si può prescindere da una conflittualità efficace e sistematica. Una conflittualità che sia in grado di colpire il sistema, e modificarne il modo di funzionamento in modo tale da migliorare le condizioni sociali di chi se ne fa protagonista.

L’autore: Ignazio Masulli è uno storico contemporaneo e saggista, già professore ordinario di Storia del lavoro

Nella foto: mondine al lavoro, anni 40