Nella ricca città Stato del Sud-est asiatico si può essere impiccati per reati che in Italia prevedono pene di lieve entità. Secondo una stima sarebbero almeno 54 i prigionieri che in questo momento attendono nel braccio della morte. Tra questi c’è Pannir. Storie di vite stroncate da una giustizia disumana contro cui si batte l’avvocato e attivista M. Ravi
Martedì è stata una giornata indimenticabile per Appu. Ha incontrato sua madre Paapa che non vedeva da tempo. Ha indossato il primo paio di jeans nuovi in nove anni e posato sorridente per un servizio fotografico. Ha ordinato spaghetti wonton per cena e offerto frittelle di montone ai suoi compagni. La mattina dopo i familiari e gli amici più cari sono andati a prenderlo. Appu Tangaraju s/o Suppiah ha scontato la pena e ha lasciato per sempre la prigione di Changi a Singapore. Con il collo spezzato. È stato impiccato prima dell’alba, condannato a morte con l’accusa di favoreggiamento del traffico di circa 1 kg di cannabis, pur non essendo stato trovato in possesso della droga (un reato che in Italia prevede una reclusione di pochi anni, ndr). Appu aveva 46 anni. Le sue ultime parole ai familiari sono state: «Ci vediamo domani». Quando ha saputo che la sospensione dell’esecuzione era stata negata, si è allontanato dal vetro divisorio della sala visite e ha chiesto alle guardie di riportarlo in cella, dove ha consumato l’ultimo pasto in solitudine, lasciando tutte le frittelle agli altri carcerati. Il contatto umano l’ha ricevuto dal boia, quando è stato incappucciato e ammanettato dietro la schiena. Il rumore improvviso della botola ha segnalato ai detenuti nel braccio della morte il momento in cui il patibolo l’ha ingoiato e rispedito indietro, come si dice in gergo. Sua madre non sa che ha visto il figlio per l’ultima volta, i familiari non le hanno parlato dell’esecuzione. Di lui restano le ultime foto ricordo con gli abiti nuovi, scattate dal fotografo del carcere poco prima dell’esecuzione.
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