Biancaneve in versione politically correct senza principe azzurro e senza i 7 nani. Al loro posto compare un gruppo di creature magiche, di ogni colore e genere. Apriti cielo. È bastata una foto dal set del nuovo film targato Disney apparsa sul tabloid inglese Daily Mail per scatenare la bagarre contro la cosiddetta “cultura woke”, rea di volere una cultura libera dal razzismo e dagli stereotipi di genere.
Conservatori europei e d’oltreoceano si lanciano in difesa della “vera Biancaneve”. Come se ne esistesse solo una, ignari che la prima versione, dei fratelli Grimm, del 1812, nasceva già su un sostrato di fiabe popolari e che ve ne furono poi varie versioni compresa quella Disney del 1937.
A chi lancia crociate contro la cultura woke Davide Piacenza ha dedicato il libro La correzione del mondo (Einaudi). Ma come, gli chiediamo? Mentre misoginia e stereotipi sessisti dilagano come nulla fosse (il caso Facci docet, insieme a quello di La Russa, solo per fare qualche esempio made in Italy) c’è si preoccupa di Biancaneve?
«A prescindere dal fatto che lo “scoop” arriva dal Daily Mail, che è sempre smanioso di trovare casus belli su vere o presunte scorribande del “politicamente corretto – dice Piacenza continuando idealmente la conversazione pubblicata su Left di giugno (che vi proponiamo di seguito integralmente) – penso che, se confermata, questa notizia porrebbe la nuova Biancaneve al livello del caso Roald Dahl di qualche mese fa: modifiche cosmetiche che nessuno aveva veramente chiesto, e che una grande produzione (cinematografica, in questo caso) si intesta cercando di ottenere applausi e stellette al merito. Non fosse che, in questo caso come in quello, otterrà solo ripercussioni negative e strumentalizzazioni da destra: e questo a prescindere dal fatto che il genere umano può sopravvivere anche senza i sette nani”.
Per approfondire. Ecco l’intervista uscita su Left il 7 giugno:
Se i reazionari gridano:«Al lupo!»
Gridano al lupo al lupo facendo le vittime perché la “razza bianca e cristiana” sarebbe – a loro dire – minacciata. Lanciano proclami paranoici farneticando di complotti e di sostituzione etnica. Rovesciano la realtà parlando di dittatura delle minoranze. Benvenuti nel mondo delle cultural wars della destra reazionaria di cui è stato campione Trump e che ha fatto scuola anche in Italia, con la leader di Fratelli d’Italia e presidente del Consiglio Giorgia Meloni cresciuta a pane e Trump, a acqua e Orbán, che lancia crociate contro «i liberal – progressisti neomarxisti, intossicati dal sogno della wokeness, quelli a libro paga di Soros e che vogliono abolire lo stile di vita occidentale» (cit. del presidente ungherese). Ma davvero va fermata l’onda woke che negli Usa dopo la barbara uccisione di George Floyd, ci ha aperto gli occhi sul razzismo strutturale delle istituzioni Usa? Esiste una dittatura del politicamente corretto imposta dall’egemonia di sinistra? Esiste davvero una prevalicante “cancel culture” che ci ruba il bacio di Biancaneve? Lo abbiamo chiesto a Davide Piacenza, collaboratore di Esquire e di altre riviste, ma soprattutto autore di una newsletter e di un brillante volume su questi temi, La correzione del mondo.
Davide Piacenza, quale pensiero, o per meglio dire quale ideologia, c’è dietro l’ossessione del governo Meloni per la risemantizzazione di parole chiave, per la rinominazione dei ministeri, per l’ostracizzazione dell’inglese (salvo poi incappare in vistosi incidenti come la campagna «open to meraviglia»)?
Non so se «Open to meraviglia» sia un esempio a esse ascrivibile, ma di certo il governo italiano ha sposato quelle che Oltreoceano vengono definite culture wars, appunto: scontri culturali che sfruttano la mediatizzazione caotica di questi tempi per imporre temi del dibattito divisivi e simbolici. Perché tutte queste uscite sulla carne sintetica, su nuove pene per gli attivisti per l’ambiente che deturpano i monumenti, sui rave e persino sull’uso dei termini anglofoni nella comunicazione pubblica? Perché su questo Giorgia Meloni e sodali sono andati a scuola, e non da oggi: al di là dell’Atlantico Donald Trump e il suo attuale primo sfidante alle primarie repubblicane, il governatore della Florida Ron DeSantis, hanno perfezionato l’arte di sviare l’attenzione pubblica incanalandola in questioni secondarie ma che accendono il loro elettorato (basti pensare che ultimamente è accaduto persino con le cucine a gas, che la propaganda martellante della destra americana ha indicato come le prossime vittime dell’amministrazione Biden).
Razza, etnia, sostituzione etnica, che dire delle esternazioni del ministro Lollobrigida? La toppa che poi ha cercato di metterci è stata peggiore del buco?
Sì, tenderei a inquadrarla in questi termini. Anche perché, anche in questo caso, l’uscita sulla «sostituzione etnica» non è solo un inciampo, ma un riferimento evidente a una teoria complottista di grande rilievo in seno alla destra internazionale, a cui sia Meloni che Salvini – come spiego nel mio libro – hanno attinto ampiamente negli ultimi anni. Non si può cadere dal pero e dire «non sapevo nulla»: se Lollobrigida non avesse veramente saputo nulla in merito al cosiddetto presunto Great Replacement, se non avesse contribuito a diffonderne la velenosa propaganda reazionaria, non si fatica a immaginare che verosimilmente il suo partito non avrebbe vinto le elezioni e lui oggi non sarebbe ministro.
In che modo il conservatorismo ha imboccato la strada delle politiche intimidatorie non solo in Italia, ma prima ancora negli Usa con Trump, in Brasile con Bolsonaro, in Russia con Putin e Dugin?
La destra ha problemi con l’intimidazione, per dirla con una battuta, da un secolo. L’amara novità degli ultimi anni, però, è che sembrano completamente scomparsi i liberal-conservatori, o meglio ancora lo stesso concetto di una “destra moderata”: come si fa ad annoverare fra i moderati chi sostiene e ripete su un palco teorie complottiste di stampo razzista? I Paesi che citi hanno storie molto diverse fra loro, ma un fil rouge che li lega è anzitutto la polarizzazione accelerata che piaga la nostra epoca: Trump, Bolsonaro e Putin hanno dalla loro parte non soltanto messaggi semplici e falsi con cui sedurre l’elettore, ma anche imponenti piattaforme comunicative che vanno a nozze col loro penchant per la disinformazione. In questo senso, credo che la radicalizzazione reazionaria sia anche e soprattutto figlia delle camere dell’eco dei social network, oltre che dell’intolleranza tipica delle forze politiche xenofobe.
Ron De Santis, il governatore repubblicano che vuole correre per la Casa bianca, ha varato lo Stop woke act, come lo leggi?
Lo leggo come un tentativo di ergersi a paladino di una «cara vecchia America» che non esiste più, e in certi termini non è nemmeno mai esistita: DeSantis ha puntato tutte le sue fiches sul modus operandi di cui parlavamo pocanzi, quello che rende più profittevole dimostrarsi accaniti e spietati di fronte a questioni simboliche e secondarie (rimanendo allo Stop woke act, nessuno è davvero convinto che la Florida avesse un’emergenza di corsi ottusamente antirazzisti insegnati nelle sue scuole pubbliche), rispetto a dover – faccio un esempio – giustificare in una conferenza stampa trasmessa in diretta i numeri deludenti di un’economia in flessione.
Le destre sostengono che esista una dittatura del politically correct, è davvero così in un’Italia che – come tu ricordi nel libro – ha visto un ministro condannato per appellato come «orango» una collega nata in Congo un Paese che ha visto un vice premier ammonire una contestatrice dicendo «stai buona zingaraccia» e parlare impunemente di «Rom e topi»?
No, la «dittatura del politically correct» agitata come un fantoccio dai reazionari a caccia di qualche voto spaventato non esiste. Attenzione però a non incappare nell’errore speculare, quello per cui allora il cosiddetto “politicamente corretto” è un’invenzione di destra non nel suo significante, ma nel suo significato: in risposta agli «al lupo» reazionari c’è chi a sinistra giura e spergiura che non stiamo vivendo nulla di sostanzialmente nuovo, che le cacce alle streghe sui social tutto sommato non sono un grave problema e che beh, se anche due libri classici vengono riscritti che sarà mai? Parliamo d’altro. Ecco: è una prospettiva sbagliata e controproducente, perché lascia praterie alle destre e perché sottovaluta l’aspetto più importante: il mondo sta cambiando davvero, e noi dobbiamo imparare a convivere nelle nuove società senza renderle far west ostaggio di rese dei conti algoritmiche.
Perché, come tu scrivi, quella dei conservatori sulla Sirenetta nera è stata propaganda reazionaria?
È propaganda perché è l’ennesimo diversivo interessato. Nemmeno Andersen stesso avrebbe perso il sonno di fronte alla possibilità che la Sirenetta potesse essere interpretata da un’attrice afroamericana: sono polemiche inesistenti, animate da piattaforme digitali regolate da algoritmi di cui non sappiamo niente, che generano numeri di pubblico enorme su cui è quasi impossibile indagare e poggiano su viralità di cui molto spesso non conosciamo l’origine. Poi sì, certo: ci sono i razzisti, quelli che vorrebbero vedere meno persone nere in generale: ma non concediamogli il lusso di orientare la nostra attenzione.
C’è anche un whitewashing da rifiutare perché esprime solo un antirazzismo di facciata?
Quanto al whitewashing, rispondo più a monte: sono persuaso del fatto che una considerazione di casting che diventa una casella da spuntare in un riquadro identitario sia una considerazione di casting anti-artistica, controproducente e persino un po’ triste. La Sirenetta nera è una cosa buona e giusta, così come è cosa buona e giusta un personaggio originariamente nero interpretato da un attore bianco: se gli attori sono bravi e ci fanno emozionare, che ci importa di che colore è la loro pelle?
Che ne pensi di casi come quello della diatriba sulla traduzione dei versi della poetessa Amanda Gorman. Lo scrittore maliano Soumaila Diawara ha scritto su Left che la traduzione è un fatto di sensibilità non una questione genetica che riguardi il colore della pelle, che ne pensi?
Sono del tutto d’accordo con Diawara, e mi sembra che completi ciò che stavo dicendo: se una traduttrice ha studiato, approfondito e amato una tradizione diversa dalla sua – o, appunto, una poetessa di un’altra etnia – per quale motivo non dovrebbe poterla trasmettere? Una visione così piatta e a compartimenti stagni dell’esperienza umana e della cultura produce soltanto mostri: e invece così tanto di ciò che di buono e di buonissimo è venuto dalla storia dell’arte è il risultato di esperienze diverse che si mescolano. Non illudiamoci di fare del bene mettendo dei paletti strettissimi attorno a ciò a cui è lecito sentirci affini.
Anche per questo piuttosto che star chiuso a discutere nella tua bolla sui social ha pensato a una newsletter e a un libro?
Culture Wars è nata da un’urgenza personale, per così dire: ero stufo di discutere di cose come la rappresentazione delle minoranze, l’appropriazione culturale e la fantomatica “cancel culture” nello spazio di un tweet o un post su Facebook, perché ne nascevano solo malintesi a cascata, accuse a priori e assenza di dialogo, sostituito da un incasellamento farraginoso e sempre manicheo. Nei primi mesi ha raccolto prima centinaia e poi più di un migliaio di iscritti: oggi sono circa 2000, e non posso che esserne orgoglioso, perché mi arrivano con frequenza email di persone che dicono – riassumendo – di essermi in un certo senso grate, perché finalmente hanno trovato punti di vista ragionati, informati e sensibili su temi su cui si leggono quasi soltanto urla belluine e certezze granitiche da like. Il libro è arrivato nel modo più inatteso: un editor di Einaudi Stile Libero era tra i primi iscritti della newsletter, ne ha intuito il potenziale e mi ha chiesto di renderla un approfondimento più ampio. (Simona Maggiorelli)
in foto: Screenshot of Snow White from the 1958 Reissue trailer for the film Snow White and the Seven Dwarfs. WARNING All the movie trailers released before 1964 are in the Public Domain because they were never separately copyrighted.