L’attentato a Palazzo Marino, sede del consiglio comunale di Milano, commesso nella notte fra il 29 e il 30 luglio 1980, poco più di 48 ore prima della strage del 2 agosto 1980 alla Stazione di Bologna, quasi dimenticato, costituisce uno dei più gravi fatti terroristici avvenuti nella città, sia per la quantità dell’esplosivo utilizzato, sia per le modalità. Si trattò, infatti, del primo caso di attentato a Milano mediante autobomba.
Alla 1.55 del 30 luglio fu fatta saltare una Fiat 132 carica di esplosivo nelle vicinanze dell’ingresso riservato ai consiglieri, lato piazza San Fedele. La vettura esplodeva disintegrandosi quasi completamente, causando gravi danni all’interno del palazzo con il danneggiamento di infissi e vetrate e lo scardinamento del cancello di ingresso. Davanti si formò un profondo cratere. Danneggiata fu anche la facciata della vicina chiesa di San Fedele, così dicasi per alcuni stabili circostanti, nonché per le vetture parcheggiate intorno. Parti della Fiat 132 vennero addirittura ritrovate sui tetti degli edifici che si affacciavano sulla piazza. Nessuna vittima. Le conseguenze dell’esplosione sarebbero state anche maggiori se, oltre ai sei chili circa di polvere da mina tipo Anfo contenuti in un tubo di piombo, fossero deflagrati altri due chili di esplosivo contenuti in un altro tubo e altri sei posti in una tanica, proiettati all’esterno della vettura e fortunatamente rimasti intatti.
Si era da poco conclusa la prima seduta del consiglio che aveva eletto la nuova giunta di sinistra, Pci-Psi. Nella piccola piazza si erano formati diversi capannelli: consiglieri comunali, esponenti dei partiti, giornalisti, semplici spettatori della seduta dell’assemblea municipale. Poi tutti a casa. All’1.45 i due vigili di guardia avevano chiuso il portone. Il sindaco, Carlo Tognoli, solo da un attimo si era allontanato dal suo ufficio, al secondo piano. L’autobomba era stata collocata proprio lì sotto a pochi metri. Una scheggia di lamiera fu ritrovata conficcata nell’apparecchio telefonico sulla sua scrivania. Solo per una manciata di minuti non si sfiorò un’ecatombe. Fu di fatto una mancata strage.
L’attentato venne rivendicato con un volantino lo stesso 30 luglio dai “Gruppi armati per il contropotere territoriale”, organizzazione sconosciuta nel panorama dei gruppi di sinistra, che indicava in Palazzo Marino il «rappresentante territoriale del potere democristiano». Che qualcosa non quadrasse era evidente. La Dc era infatti costretta all’opposizione.
Il recupero della targa della Fiat 132 semidistrutta consentiva di accertare che la vettura era stata rubata ad Anzio nell’aprile precedente, a 60 chilometri a sud di Roma, dove operava il cosiddetto “Gruppo Giuliani”, struttura eversiva di destra legata operativamente ai Nar e a Gilberto Cavallini. E fu proprio chi era politicamente e sentimentalmente legata al capo del gruppo, Laura Lauricella, a confidare all’autorità giudiziaria che Egidio Giuliani aveva consegnato una grossa partita di esplosivo a due elementi della zona di Latina (Benito Allatta e Silvio Pompei), che lo avevano poi girato a «gente» di Milano per fare l’attentato al palazzo comunale.
Laura Lauricella confessò anche che nelle «basi» del gruppo Giuliani, nei dintorni di Roma, aveva avuto modo di vedere notevoli quantitativi di esplosivo in polvere di colore bianco o giallo/marroncino del tutto analogo all’Anfo utilizzato per l’attentato al Comune di Milano.
Un altro componente del gruppo, Marco Guerra, dichiarò invece che Egidio Giuliani era assai abile nel confezionare ordigni esplosivi costituiti da tubi di piombo riempiti di polvere da mina.
Sulla base di tali elementi, Giuliani, Allatta e Pompei vennero incriminati. Prove concrete, però, non ne furono raccolte e i tre nell’aprile del 1983 furono prosciolti. Non bastarono nemmeno le successive dichiarazioni di Sergio Calore (fondatore di Costruiamo l’azione e del Movimento rivoluzionario popolare), che nel 1984 parlò dell’uso dell’Anfo da parte dei gruppi neofascisti romani, e di Raffaella Furiozzi, all’epoca legata al militante dei Nar Diego Macciò, rimasto ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia nel 1985, che le confidò che l’attentato di Milano era stato «ideato» da Gilberto Cavallini. Angelo Izzo, dal canto suo, nel 1986 indicò nuovamente tra i responsabili Cavallini e Giuliani.
Tutti furono comunque condannati per la detenzione di notevoli quantità di esplosivo da mina, micce e detonatori rinvenuti nelle basi del gruppo. Un’entità, la banda di Egidio Giuliani, che si collocava in una sorta di crocevia eversivo tra i Nar di Gilberto Cavallini, Costruiamo l’azione (erede della struttura di Ordine Nuovo guidata da Paolo Signorelli) e la malavita comune.
Egidio Giuliani nel 1990 fu condannato a otto anni per i reati associativi nell’ambito del processo per la strage di Bologna e nel 2016 a 16 anni di reclusione per aver fatto parte del commando che nel luglio 2014 uccise Silvio Fanella, il broker ritenuto il “cassiere” dell’imprenditore Gennaro Mokbel.
Gilberto Cavallini, già otto ergastoli per diversi omicidi, ne ha, invece, recentemente accumulato un nono, in primo grado, il 9 gennaio 2020, per concorso nella strage alla stazione di Bologna.
Tutti gli elementi raccolti portano a concludere che l’attentato di Milano, con la volontà di fare strage di consiglieri comunali al varo di una giunta di sinistra, fosse parte del medesimo progetto eversivo, una prima tappa ordita dalla P2 di Licio Gelli ed eseguita dai Nar, unitamente ad altri esponenti neofascisti di Terza posizione e Avanguardia nazionale, come riconosciuto dalle ultime sentenze del Tribunale di Bologna che hanno condannato Gilberto Cavallini e successivamente Paolo Bellini (6 aprile 2022), quest’ultimo ex di Avanguardia nazionale con un passato da killer di ‘ndrangheta.
L’autore: Saverio Ferrari è direttore dell’Osservatorio democratico sulle nuove destre