Come funziona il capitalismo reale? In che rapporto stanno Potere e profitto? Le crisi aprono spazi di opportunità: sempre? Il problema della sinistra in Italia è di essere troppo oppure troppo poco “populista”? Machiavelli può essere considerato il padre nobile del populismo? Ma cos’è in fondo il populismo, al netto della repulsa delle tecnocrazie e delle sinistre liblab?
Queste sono solo alcune domande e riflessioni al centro del densissimo saggio di Tommaso Nencioni Crisis. Non c’è che crisi. La permacrisi come modalità di governo delle nostre società uscito recentemente per i tipi di Asterios. Il punto di avvio della serrata argomentazione è costituito dal ribaltamento di un topos pernicioso: che le crisi debbano risolversi sempre positivamente, come sottolineava il sociologo della Scuola di Francoforte Wolfgang Streeck in Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico e soprattutto che le crisi debbano e possano risolversi, prescindendo dell’esito delle stesse, riprendendo alcune riflessioni di Reinhart Koselleck.
La tesi dell’autore è brutale e di grande forza esplicativa: lo Stato neoliberale non si propone di governare la crisi, ma di governare attraverso uno stato di crisi permanente. La crisi non è l’evento traumatico che fonda una nuova realtà statuale che accolga e risponda allo spirito del tempo, come lo furono lo Stato sovietico di Lenin, lo Stato corporativo dei fascismi e lo Stato sociale del New Deal a fronte della Prima guerra mondiale e della crisi del 1929. La crisi è la normalità che informa lo spirito e le leggi del capitalismo reale contemporaneo, caratterizzate dalla impermeabilità alle rivendicazioni materiali delle classi subalterne, resecando l’eccesso di democrazia che, secondo il Rapporto sulla governabilità della democrazie redatto dalla Commissione Trilaterale nella metà degli anni Settanta avrebbe caratterizzato – in negativo dal loro punto di vista – le società post Seconda guerra mondiale attraverso la rottura del nesso dialettico conflitto e istituzioni.
Dalla crisi del 2008 non si è mai usciti perché questa è stata la scelta politica delle classi dominanti nordamericane ed europee e per comprendere teoricamente e politicamente gli anni che stiamo vivendo occorre andare alla crisi degli anni Settanta, quando il socialismo – come citano in una canzone gli Offlaga Disco Pax – era in espansione come l’universo. Nella vittoria conseguita a partire da quello che era stato il punto più basso del consenso al capitalismo sul piano internazionale risalgono le radici del tempo presente. Nella rottura “da destra” del patto sociale socialdemocratico che aveva garantito l’uscita dalla crisi del 1929 e tenuto al riparo il mondo oltre la cortina di ferro dai rischi del socialismo e del comunismo.
I capitalisti avevano infatti compreso ben prima e meglio di gran parte del movimento socialista e comunista occidentale i rischi della trappola di Kalecki. L’economista polacco di origine ebraica già negli anni Quaranta metteva in guardia dal considerare definitive le conquiste che stavano alla base del consenso keynesiano: messe in campo per salvare il capitalismo da sé stesso e per sottrarre le classi lavoratrici e le forze politiche di riferimento dai rischi di rotture rivoluzionarie, le politiche del pieno impiego e del welfare state avrebbero nel medio periodo messo in forse gli equilibri di potere che rendevano possibili i profitti all’interno delle società capitalistiche. È vero che i profitti sarebbero stati elevati in regime di pieno impiego, ma la disciplina e la gerarchia nella fabbrica e nella società, e la conseguente stabilità politica, erano apprezzati maggiormente da parte dei capitalisti rispetto agli stessi profitti. Il successo della politica keynesiana si sarebbe rivelato in ultima istanza una trappola per il capitalismo, poiché pur assicurando ampi profitti metteva in discussione il Potere nella fabbrica, nella società e nello Stato.
Tra il Profitto ed il Potere, i capitalisti hanno sempre scelto il Potere, perché è il Potere che garantisce un assetto sociale che garantisce i profitti. La gigantesca fabbrica fordista-taylorista garantiva profitti enormi nel processo di sussunzione reale della forza lavoro e nelle economie di scala ma produceva elementi di contropotere che da dentro la fabbrica si estendevano all’intera società. Il decentramento produttivo, la catenine che tornavano negli scantinati, la retorica del piccolo è bello, l’esaltazione dei distretti di piccola e media impresa erano la risposta politica delle classi dominanti al ciclo lungo di mobilitazione operaia degli anni Sessanta e Settanta. Come ben scriveva Franco De Felice nel suo saggio nella einaudiana Storia dell’Italia repubblicana, «con la scelta del decentramento la grande impresa acquisisce un ruolo diretto di riorganizzazione sociale, con la costituzione di un polmone che assorbe, filtra e controlla una fascia consistente di lavoro precario e svolge un ruolo oltre che di stabilizzazione, di isolamento delle punte più agguerrite e combattive della classe operaia organizzata». L’iniziativa sul piano economico e sociale della controffensiva padronale era accompagnata e preceduta da una azione che si svolgeva sul piano ideologico e culturale, tesa a riaffermare la centralità dell’Impresa contro la centralità del Lavoro, rinsaldando la scossa identità di classe della borghesia (si veda a questo proposito sul versante italiano la traiettoria del Progetto Valletta della Fondazione Agnelli).
Questa considerazione di Nencioni ripresa da Michal Kalecki ci dice alcune cose importanti: sul piano storico-politico quanto fossero politicamente avanzate sia la strategia della democrazia progressiva del Pci che il ruolo svolto dal Psi nelle prime esperienze di centrosinistra degli anni Sessanta, sia e soprattutto quanto sia oggi stupido e sterile chiedere ai padroni di risolvere la crisi a favore degli strati popolari o degli interessi di un astratto Paese. Un imprenditore investe il proprio danaro, meglio se gli viene regalato dai contribuenti, dove è migliore il rapporto tra redditività e rischi, dove i rischi sono anche quelli di migliorare le condizioni materiali delle classi lavoratrici a tal punto da potersi addirittura sottrarre al ricatto di dover vendere la propria forza lavoro solo al costo della riproduzione bruta della stessa.
La campagna della destra politica e di Confindustria contro il salario minimo orario ed il reddito di cittadinanza è una scelta di natura politico-ideologica preventiva, così come il killeraggio politico effettuato per conto terzi da parte di Matteo Renzi nei confronti del governo Conte II era motivato dall’evitare che il ritorno del bisogno di protezione sociale e del ruolo dello Stato potesse assumere i contorni di una nuova espansione progressiva dei concetti e dei bisogni di sicurezza e protezione, che dalla sanità al bisogno di socialità reintroducesse elementi di economia mista, statale e magari anche affidata al sistema delle autonomie locale, partendo dai servizi pubblici locali per arrivare alle reti logistiche ed infrastrutturali materiali ed immateriali. I padroni sanno cosa fanno, smettiamola di affidare a loro la risoluzione dei nostri problemi fornendo consigli che dovrebbero ascoltare. Se l’obiettivo sistemico della controffensiva segnata dal Rapporto della Commissione trilaterale era tornare a separare il conflitto dalle istituzioni, il nostro compito è riannodarli. È questo il concetto di populismo – e la sua funzione progressiva – che Nencioni propone e rivendica sulla scia delle considerazioni di Ernesto Laclau, riprendendo un filo che da Machiavelli arrivava fino ad Antonio Gramsci. Certo, per superare la china ci sarebbe bisogno di militanza e di Partito, di conflitto e di teoria. Il denso e stimolante contributo con il quale ci siamo confrontati va nella giusta e necessaria direzione, ed è per questo auspicabile una campagna di presentazione e di discussione collettiva.
L’autore: Maurizio Brotini, segreteria Cgil Toscana
Nella foto: il celebre murale di Banksy contro la schiavitù capitalistica, New York, 2018