Al Locarno Film festival, in una Piazza Grande gremita all’inverosimile da 8mila spettatori una standing ovation ha accolto l’8 agosto il regista Ken Loach. L’applauso corale gli viene tributato prima della proiezione del suo ultimo film, The old oak (La vecchia quercia) che in Italia uscirà il 25 ottobre. È dunque un tributo alla carriera, alla costante attività di lotta politica a favore dei più deboli che Loach porta avanti con i suoi film da sei decadi. Malgrado circa dieci anni fa avesse deciso di ritirarsi, la terribile realtà sociale provocata dai governi Tory succedutisi lo ha spinto a continuare, in stretta collaborazione con Paul Laverty, da anni lo scrittore dei copioni dei suoi film. Una coppia capace di fondere il dialogo con le immagini, con un’alternanza magnetica di forza e poesia. Dal cambio di decisione sono scaturiti Io, Daniel Blake, palma d’oro a Cannes nel 2016, e Sorry, we missed you del 2019.
«Con Io, Daniel Blake e Sorry we missed you – ha detto Ken Loach durante l’incontro con i giornalisti – abbiamo lavorato prima sulla realtà di uno Stato che nega a chi è in difficoltà il sussidio necessario per vivere e non fare la fame. E poi su chi, come il protagonista di Sorry we missed you, è costretto a lavorare oltre 12 ore al giorno senza uscire dal suo stato di povertà. Attraverso la vicenda dei profughi siriani insieme a Paul (Laverty) volevamo mettere in luce come in quella situazione così devastata socialmente anche la solidarietà che un tempo c’era ed era forte si è perduta. Del resto basta vedere cosa accade in Gran Bretagna con un premier nato da genitori indiani come Rishi Sunak che ci aspetteremmo più sensibile nei confronti dei migranti, e invece manifesta un atteggiamento razzista che ha ulteriormente aggravato la situazione. Purtroppo questa classe dirigente si preoccupa solo di difendere il mercato»
Ed ora questo film, a chiudere una trilogia tutta ambientata nella contea di Durham, nordest dell’Inghilterra – per il futuro, ha detto, pensa «a qualcosa di più piccolo, un documentario». «Abbiamo deciso di tornare nella contea di Durham – ha raccontato Loach durante la conferenza stampa – dove avevano già lavorato proprio perché è abbandonata dalle istituzioni e dalla politica, e dopo la chiusura delle attività industriali è stata dimenticata da tutti, conservatori e laburisti. Dai primi nessuno si aspetta nulla, dai secondi si sentono traditi. Molte famiglie sono emigrate altrove, i negozi, le scuole, le biblioteche hanno chiuso. In questo contesto l’estrema destra ha trovato un terreno su cui prosperare».
The old oak, ambientato nel 2016, prende nome dall’unico pub rimasto aperto in un ex villaggio di minatori, impoverito dalla chiusura delle miniere nel 1980. Alcune foto nel film mostrano la dura lotta dei minatori per tenerle aperte. La sconfitta ha portato grande miseria. Molti di loro sono emigrati. Quei pochi rimasti sono per la maggior parte pieni di rancore verso tutto e tutti. Anche perché i negozi hanno chiuso i battenti, il governo non considera i problemi della comunità, e nemmeno la chiesa dà una mano. Abbandonati da tutti. Anzi, si sono ricordati del villaggio per spedirvi un gruppo di rifugiati siriani, mandati lì perché vi erano molte case economiche da affittare. E forniscono loro gli aiuti sotto forma di cibo, giochi, vestiti, un ulteriore oltraggio alla povertà locale, per la quale non organizzano rimedi. Oltre al danno la beffa. Prima ancora che i siriani arrivino, la rabbia e l’odio si tagliano col coltello. E chi ne fa le spese è uno dei protagonisti principali del film, TJ (Dave Turner) che, essendo il barman del pub, ascolta per ore i disoccupati rancorosi a bere birra e lamentarsi. TJ tiene aperto a stento il pub come omaggio al passato, quando era un importante centro di incontro dei lavoratori e delle loro famiglie. Ma non condivide il razzismo senza appello degli avventori. All’inizio del film c’è l’arrivo di un pullman pieno di questi profughi, da cui scende l’altra protagonista, Yara (Ebla Mari), fotografa. Uno degli abitanti le strappa di mano la macchina fotografica, unico tesoro che è riuscita a portare con sé. La macchina cade a terra e si rompe. Per porvi rimedio lei si rivolge a TJ, e lui si lascia coinvolgere. Fra lui e Yara si instaura una amicizia basata sulla solidarietà, che porterà ad un superamento delle incomprensioni e degli odi che alcuni degli abitanti del villaggio spargono contro i nuovi arrivati.
Yara si fa portavoce, lungo tutto il film, delle idee del Maestro, mostrando quanto lo scambio fra culture diverse sia un arricchimento per tutto il nucleo sociale in cui gli stranieri si sono spostati. In particolare la frase «Se smetto di sperare, il mio cuore smette di battere», che lei dice a TJ, sottolinea uno degli aspetti della lotta politica del regista. Per Ken, alla denuncia e alla lotta deve sempre accompagnarsi la speranza in un futuro migliore. Merita di essere citata anche un’altra battuta del film: «La solidarietà non è carità», a proposito della quale il regista ha commentato: «Bill Gates e Jeff Bezos parlano di quanto spendono in beneficenza. Sarebbe meglio pagassero le tasse dovute».
In Piazza Grande il regista ha introdotto il film con un’accorata analisi della deriva destrorsa e populista che funesta oggi molte nazioni. Dopo una rapida sintesi storica degli anni precedenti, ha detto, con una frase lapidaria: «E poi arrivò la Thatcher», vista come l’origine dei neoliberismi malati del mondo attuale. Oltre alla denuncia c’è però – importantissimo per lui – l’invito a mantenere la speranza. E in conferenza stampa ha detto: «Noi esseri umani sappiamo ancora essere buoni vicini con chi è in difficoltà. Non siamo di natura ostili verso l’altro, e il senso di solidarietà nell’accogliere un’altra comunità può ancora prevalere. Tutto questo andrebbe messo insieme perché è più forte dell’estrema destra. Possiamo sconfiggere la loro propaganda, non dobbiamo cedere a quella di Le Pen o del capo del governo in Italia, Meloni».
Nella foto: Ken Loach a Cannes 2019, foto Georges Biard (Wikipedia)