Il ministro Sangiuliano e il sindaco Nardella hanno steso tappeti rossi ai due ultramiliardi rimanendone anche beffati. La sfida per fortuna non si farà. Ma c'è molto da riflettere sul senso del patrimonio culturale e delle istituzioni di chi dovrebbe tutelarle

Fra le più sconcertanti manifestazioni dell’attuale degrado dello spirito pubblico in Italia, andrà ricordata l’entusiastica interlocuzione del Ministro della cultura Sangiuliano con Elon Musk e il suo progetto di sfidare alla lotta libera Mark Zuckerberg a Pompei o nel Colosseo: è andato tutto a monte e forse si trattava di uno scherzo in cui il governo è caduto senza alcun paracadute. Dopo l’estate il Parlamento discuterà l’autonomia differenziata, che minaccia non solo di distruggere irrimediabilmente l’impianto sociale della Costituzione ma anche di dissolvere il patto nazionale di origine risorgimentale (altro che morte della patria l’8 settembre!). Che proprio una destra sedicente patriottica possa essere protagonista dello scempio, lo dimostra l’episodio a cui facevamo riferimento e la sua mancanza di dignità repubblicana che svela il debito di Fratelli d’Italia con il berlusconismo. Come è possibile rendere disponibile il patrimonio storico e artistico del Paese, i luoghi stessi della nostra identità collettiva, ad un tale ridicolo circo (Come ha denunciato Tomaso Montanari)? Come è possibile ridurre un grande Paese a colonia delle fantasie di due membri di quell’élite che da tempo accumulano capitale economico e simbolico a spese del resto dell’umanità nel plauso generale? Come è possibile non respingere al mittente la proposta in quanto diseducativa per i giovani?
Per spiegarlo è necessario ricordare cosa sia il mito della Silicon Valley. Fra anni Novanta e inizio del duemila, infatti, la stessa cultura liberal-progressista fu abbagliata dalla visione di un luogo in cui il talento diventava automaticamente ricchezza. Steve Jobs amava dire che in California non importava il tuo vestito ma solo il tuo merito. Giuliano da Empoli, sociologo molto vicino a Matteo Renzi, magnificò, in un volume del 2000, l’alchimia per cui, con la nuova economia finanziarizzata e la rivoluzione digitale, sarebbe stato possibile produrre sempre più danaro da denaro senza passare dalla produzione di beni materiali, consentendo a chiunque di ascendere la scala sociale. La flessibilità del lavoro, lungi dall’essere precarietà, avrebbe consentito alle nuove soggettività nomadi eredi della contestazione di vivere libere da vincolanti radici e mettersi continuamente sul mercato qualora dotate di solide competenze. Già con la crisi del 2008 iniziò tuttavia ad essere chiaro come l’economia finanziarizzata non rendesse più il capitalismo compatibile con il benessere generalizzato, dato che la produzione del danaro dal denaro o attraverso una produzione di merci immaginifiche, non tornava sufficientemente alla società in termini di occupazione e servizi finanziati dal sistema fiscale. Nella Silicon valley solo uno su un milione ce la fa: magari talentuoso, certo, ma svettando su un marea sempre più vasta di sommersi.
Non è un caso che quando nel 2010 David Fincher realizza il film biografico su Zuckerberg (The social network), ne tratteggi un profilo a tinte fosche, mettendo in evidenza principalmente come la sua ascesa personale sia avvenuta sulla base di una spregiudicata cancellazione di ogni sentimento umano, oltre che di una continua manipolazione della realtà e degli altri, in una risentita rivalsa acquisitiva del nerd.  L’incapacità a relazionarsi per un complesso di inferiorità, viene come generalizzata nel prototipo del consumatore passivo che frequenta compulsivamente i social. Non c’è autenticità ed emancipazione nell’esteriorizzazione in rete della propria intimità, ma soltanto sfogo immediato e sterile degli aspetti più narcisistici del proprio io.
Questa psicologia trova facile cimento nello squid game della competizione sempre più generalizzata in ogni sfera della vita, di cui la gara gladiatoria ideata dai due ricchi ex-ragazzi diventerebbe un simbolo rituale. La vita è una gara con regole valide per tutti da cui si selezionano vincenti e perdenti. La controproposta di Dario Nardella (che guerrescamente intende ricorrere alla sorveglianza armata anti atti vandalici ndr), di effettuare la gara a Firenze ma convertendola in una sfida mentale-intellettuale e non fisica, mostra come anche la cultura democratica sia stata a lungo del tutto interna a questa narrazione tossica: non credo che Leonardo e Galileo avrebbero apprezzato la trovata.
Ma ormai dovrebbe essere chiaro da come sta andando il mondo che dai valori della competizione e dello spettacolo generalizzato non ne trae profitto una prospettiva progressista di emancipazione basata sui diritti umani. Il carattere individualistico e in ultima analisi gerarchizzante di questa visione finisce per favorire chi promette di assecondare senza infingimenti la struttura hobbesiana della giungla sociale, del tutto in contraddizione con ambientalismo e difesa delle minoranze. Infatti non c’è libertà e cura senza uguaglianza sociale. Senza promuovere quest’ultima vincerà sempre il fascismo: Nerone e non Spartaco.