"Io capitano", il film in concorso alla 80esima Mostra del cinema di Venezia (e in sala dal 7 settembre) narra gli orrori vissuti da due ragazzi del Senegal nel viaggio attraverso il deserto, i lager libici e il Mediterraneo. «Ho tentato di dar voce, finalmente, a chi di solito non ce l’ha», dice il regista

C’è aria di festa a Dakar: ad animare le strade, in occasione del Sabar, colori, musica e canti. È qui, in un villaggio di etnia wolof, che vivono Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall), condividendo la passione per la musica e il sogno di raggiungere l’Europa.
In concorso alla 80esima Mostra internazionale d’arte cinematografica della Biennale di Venezia – e in sala dal 7 settembre con 01 Distribution – Io capitano di Matteo Garrone racconta il viaggio dei due giovanissimi protagonisti che decidono di lasciare il Senegal e che, costretti a farlo clandestinamente, affrontano gli orrori dei centri di detenzione libici e sfidano i pericoli del deserto e del Mediterraneo.

«In Senegal non c’è alcuna guerra. C’è però chi scappa», così scrivono Lorenzo Giroffi e Giuseppe Borello in un articolo apparso su Left il 19 ottobre 2018, “Senegal e Gambia, depredati a casa loro“, dove indagano, con puntualità, alcune tra le innumerevoli motivazioni sottese all’emorragia di giovani che fuggono dal proprio Paese di origine alla ricerca di migliori condizioni di vita.

Il viaggio di Seydou e Moussa assume i contorni audaci e temerari delle prime grandi scoperte, quando determinazione e speranza muovono, insieme ai passi, anche gli intenti: sogni di progetti futuri talmente ambiziosi da nascondere le insidie. Un viaggio di formazione che si trasforma ben presto in un illogico e disumano viaggio per la sopravvivenza. Dal Mali al Niger, alla traversata nel deserto, fino alle acque del Mediterraneo, è il paesaggio a rivelare ancora tracce di sconfinata bellezza: luoghi che restituiscono, grazie all’utilizzo dei campi lunghi, quell’attenzione e quella predilezione per l’elemento figurativo che rendono esteticamente riconoscibile il cinema garroniano. Esemplare è la scena nel deserto – quasi una sorta di ‘necessaria’ distensione narrativa del racconto che riecheggia, nella forma della composizione dell’immagine, alcuni dipinti di Chagall – quando una donna, finalmente ‘libera’ grazie all’incontro con l’umano sentire di Seydou, si libra in volo.

Ad emergere dallo sfondo, sulle curve sinuose delle dune sabbiose, i corpi dei personaggi impegnati nella dura marcia, figure inermi in equilibrio precario, prive della vivacità prefigurata nell’incipit, quando era la danza ad inneggiare alla vita.
La storia di Seydou e Moussa fa eco ad altri personaggi, anch’essi coraggiosi eroi del nostro tempo, come le sorelle siriane Yusra e Sarah Mardini, che hanno ispirato con le loro gesta Le nuotatrici (2022) di Sally El Hosaini, film che racconta della loro fuga da Damasco fino alle Olimpiadi di Rio del 2016. E ancora, richiama le storie di Diala Brisly, Abu Hajar, Bahila Hijazi e Lynn Mayya, Anas Maghrebi, Bboy Shadow, Tammam Azzam, Medhat Aldaabal, Omar Imam, artisti siriani sfuggiti alla guerra – protagonisti del potente documentario di David Henry Gerson, The Story Won’t Die (2022) – capaci di trasformare il proprio drammatico vissuto in espressione artistica (L’arte che resiste: The Story won’t die, Left, 10 giugno 2022).

Una coproduzione internazionale Italia Belgio, l’ultimo film di Garrone ritorna a raccontare storie di immigrazione: la sua opera prima, Terra di mezzo (1996) descriveva la quotidianità delle prostitute senegalesi nella periferia romana, una realtà che, come afferma lo stesso regista, lo aveva sorpreso, anche per i suoi contorni surreali, fiabeschi.
In Io capitano Garrone sembra rimarcare l’attenzione nei confronti del reale in una maniera più vibrante e autentica, mettendo in primo piano l’essere umano alle prese con le innumerevoli sfide che è costretto a dover fronteggiare. «Per realizzare il film siamo partiti dalle testimonianze vere di chi ha vissuto questo inferno e abbiamo deciso di mettere la macchina da presa dalla loro angolazione per raccontare questa odissea contemporanea dal loro punto di vista, in una sorta di controcampo rispetto alle immagini che siamo abituati a vedere dalla nostra angolazione occidentale, nel tentativo di dar voce, finalmente, a chi di solito non ce l’ha».

Allo spettatore viene chiesto, dunque, di stare dentro le cose, di porsi in ascolto, di assumere il punto di vista del personaggio, di stargli accanto e di sperimentare quel sentimento di solidarietà necessario per restare in vita, anche quando il resto del mondo sembra rimanere inerte e silente davanti alle richieste d’aiuto.
Soprattutto nella seconda parte, il film restituisce i segnali di una dimensione immaginifica, che costituisce – rimarcandone il senso di sospensione – quella tensione tra «realismo della messa in scena e costruzione dell’universo onirico entro cui agiscono i personaggi» di cui scrive Christian Uva – nel volume da lui curato, Matteo Garrone (2020), edito da Marsilio – riflettendo sul cinema del regista romano.
Scritto dallo stesso Garrone, insieme con Massimo Ceccherini, Massimo Gaudioso e Andrea Tagliaferri, Io capitano si impone, nell’intera cinematografia del regista, probabilmente come il film più compiuto, dove lo stesso protagonista si fa portavoce – quasi a voler riscattare i personaggi garroniani che lo hanno preceduto – di un’inedita evoluzione, che sospinge l’eroe/Seydou a re-inventarne l’epilogo, così come per la sua stessa storia personale.

La colonna sonora del film è firmata da Andrea Farri. Edita da Sony music è disponibile in digitale.