Inaugurato nel 2022 nel più grande parco cittadino di Budapest, il nuovo Museo etnografico rappresenta uno dei più ambiziosi progetti di edilizia pubblica della capitale ungherese. L’edificio fa parte di un progetto, in corso di realizzazione, che prevede la realizzazione di un polo museale all’interno del parco, il “liget Budapest”, un distretto nel quale raggruppare i più importanti musei del Paese e che faceva parte della piattaforma elettorale di Fidesz nel 2010 (anno in cui il partito di Orbán vinse le elezioni). Secondo questo piano, in corso d’opera, i nuovi edifici si sarebbero aggiunti ai già preesistenti Museo di belle arti, che risale al 1906, e che nel suo edificio dalla facciata in stile rigidamente neoclassico (ma con interni in stile più eclettico) ospita la principale collezione di arte moderna europea del Paese, e alla antistante Galleria d’arte Műcsarnok, sempre in stile rigidamente neoclassico, uno spazio espositivo realizzato qualche anno prima del Museo. Le due facciate si trovano ai due lati del Piazzale degli eroi, dove è collocato il Monumento del millennio, concepito nel 1896 per celebrare i mille anni dalla fondazione del primo Stato ungherese e nel quale sono custodite le spoglie del milite ignoto. Uno spazio dal forte valore simbolico che apre quello che dovrebbe diventare il distretto museale ungherese più importante.
Proprio nel retro della Galleria Műcsarnok si trova la sede del nuovo museo di etnografia. Le sue dimensioni monumentali e le sue fattezze, che in nulla richiamano quelle neoclassiche del vicino piazzale, non possono rimanere inosservate nemmeno dal turista più distratto. Il valore simbolico di un’opera pubblica di queste dimensioni, peraltro realizzata in tempi record, è, con tutta evidenza, legato a un disegno politico-culturale perseguito da Fidesz, il partito al potere dal 2010. Lo spiega bene il giurista Balázs Majtényi il quale, nel saggio “Il nazionalismo esclusivista populista. I casi dell’Ungheria e del Regno Unito” (in: Il senso umano delle cose. Ripensare la società oltre la pandemia a cura di Francesca Zappacosta, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2021) racconta come nel 2019 il governo ungherese abbia fondato anche un “Istituto di ricerca per la nazione ungherese” con lo scopo principale di costruire una identità nazionale etnocentrica (Majtenyj, p. 213), nello spirito di quella che Bauman definisce “retropia”.
La prima pietra dell’edificio venne posta nel dicembre del 2017 secondo il progetto dello studio di architettura ungherese Napur, risultato di un concorso internazionale di progettazione, sotto la direzione dell’architetto Marcel Ferencz; dopo la sua inaugurazione l’edificio ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali (tra cui quello dell’International Property Awards). Il suo primissimo schizzo era chiamato “la gondola” perché le due estremità si sollevano secondo una linea curva che ricorda quella delle due estremità della tipica imbarcazione veneziana. Al di sopra di queste estremità rialzate ci sono degli spazi verdi, sorta di “giardini pensili”, mentre al centro si trova una scultura monumentale, creando un complesso dal forte impatto visuale. Sulla facciata, dove si trova l’ingresso principale del museo, è stata collocata una vetrata con motivi che ricordano quelli dei tradizionali merletti, ma questo è l’unico richiamo, nella struttura dell’edificio, che ricorda in qualche modo la sua funzione.
Il museo vero e proprio si trova al di sotto della parte centrale della “gondola” (per il 60% lo spazio espositivo si trova al di sotto del livello terra).
La nuova sede sarà in grado di ospitare solo una minima parte della enorme collezione del magazzino (170.000 reperti), in precedenza custodita nella sede dove si trovava dal 1973: un edificio monumentale risalente alle fine dell’800 inizialmente concepito in stile eclettico (con elementi rinascimentali, barocchi e neoclassici) per ospitare il Palazzo di giustizia che si trova proprio davanti alla sede del Parlamento (divenuta poi l’icona della città e nota proprio per il suo stile eclettico neo-gotico). Prima del 1973 questo edificio ospitava la Galleria Nazionale ungherese, poi trasferita nel Palazzo Reale.
Ciò testimonia l’importanza attribuita a questa collezione etnografica da parte degli ungheresi nelle diverse epoche (la collezione era nata presso il Museo nazionale ungherese nel 1872 sotto la dicitura di “collezione etnografica”), un fatto già degno di nota, se considerata la scarsa importanza data ad analoghe collezioni museali in altre capitali europee. La stragrande maggioranza dei reperti di questa collezione è legata alle tradizioni popolari ungheresi, ma non mancano pezzi provenienti da altri continenti, frutto delle classiche “spedizioni coloniali” ottocentesche o acquistati da collezionisti privati.
La scelta di costruire un edificio monumentale per concezione e proporzioni non fa che confermare l’importanza data a questa collezione. L’allestimento del museo è concepito secondo i principi museali più moderni: ogni reperto è contestualizzato in un orizzonte diacronico e sincronico mondiale e comparato con analoghi reperti provenienti da altri continenti; la sezione didattica multimediale è rivolta alle scuole e a un pubblico di bambini e ragazzi e non mancano audioguide dotate di versione in inglese nonché esposizioni temporanee volte ad approfondire singoli aspetti del mondo delle tradizioni popolari.
La realizzazione di un progetto di queste dimensioni e caratteristiche può essere considerato in sostanza una titanica sfida, una domanda a cui solo un arco di tempo più lungo potrà offrire una risposta. Un investimento così azzardato (sia nei costi che nella concezione) per un museo di etnografia pone già un primo quesito. Probabilmente non diventerà il primo polo di attrazione per i turisti stranieri, che raramente mostrano interesse per questo genere di musei, ma non è escluso che un edificio monumentale dalla concezione così ardita e originale possa diventare un punto di riferimento anche per i turisti più distratti. L’edificio in sé vale una visita, e il discorso vale sia per gli interni che per gli esterni.
Alcune voci critiche hanno sottolineato la scarsa disposizione degli spazi interni ad ospitare oggetti museali, e questo è un aspetto che si può facilmente percepire: il visitatore, in uno spazio già così fortemente caratterizzato, può sentirsi “spaesato”. Ma anche in questo caso potrebbe trattarsi di una sensazione destinata a svanire col tempo (lo stesso discorso potrebbe valere, ad esempio, per il celeberrimo Beaubourg di Parigi o per il Museo Guggenheim di Bilbao, in cui il contenitore è il protagonista molto più del contenuto).
Si sarebbe portati a pensare (giusto o sbagliato che sia) che un edificio dalla concezione così “ardita” debba ospitare opere altrettanto innovative, come, ad esempio, le “provocazioni” dell’arte contemporanea.
L’accostamento tra reperti di carattere etnografico e una struttura architettonica di questo genere può essere considerato già in sé una “dissonanza”, ma questo non è necessariamente un male. Un ulteriore quesito riguarda l’opportunità di questa “spettacolarizzazione” dell’etnografia: può essere utile, o persino necessaria, una sua riformulazione in chiave post-moderna proprio nel momento in cui il mondo sta attraversando una trasformazione così vorticosa? Per fare un esempio provocatorio, il famoso e iconico cellulare Nokia, che tutti conoscono per via del suo successo planetario, è già diventato un oggetto da museo che un domani, forse, potrebbe trovare spazio in museo etnografico? Per non parlare, ad esempio, delle macchine da scrivere, o di quelle da cucire a pedale. Oppure rientrano in questo campo esclusivamente gli oggetti legati al mondo contadino? Le due opzioni si escludono o possono essere ricomprese in un unico insieme? Anche in questo caso non mi sento di dare una risposta definitiva. Credo però che sia giusto e opportuno riflettere su queste domande, che tra l’altro implicano anche il concetto stesso di “museo” (cosa e perché dobbiamo o vogliamo conservare in un museo? A cosa serve un museo?).
Se si considera lo spazio museale come un laboratorio aperto, nel quale lo spettatore è sollecitato a porsi delle domande, e non solo ad ammirare passivamente il reperto (cosa però del tutto lecita e persino auspicabile, specie nel caso di un reperto di valore artistico), in questa ottica ha senso un museo post-moderno di etnografia, anche se magari destinato ad essere snobbato dal turismo di massa.
In ogni caso, anche se questo nuovo museo fosse concepito come una vetrina di una politica culturale del partito attualmente al governo dai risvolti inquietanti (le posizioni anti-europeiste, anti-immigrazione e contrarie a una società aperta dell’attuale premier ungherese sono note), questo aspetto col passare degli anni è destinato a dissolversi tra le pieghe delle future vicende storiche ungheresi (non sarà certo un museo etnografico a determinare i futuri destini del Paese).
Da parte mia, ho ritenuto opportuno visitare il museo in questione e credo ne sia valsa la pena. Ad esempio, dalla disposizione della collezione di ceramiche ho imparato che in tutti i continenti, nell’epoca pre-moderna erano comparsi motivi geometrici comuni.