La ricostruzione degli eccidi avvenuti dal 29 settembre al 5 ottobre 1944 sull'Appennino tosco-emiliano. Una strage che costò la vita a 770 persone, donne, bambini e anziani. Per non dimenticare questa pagina di storia, ecco il racconto dell'autore del romanzo "Stella rossa”

Gli eccidi perpetrati dai nazifascisti dal 29 settembre al 5 ottobre 1944 nella zona di Monte Sole, sull’appennino tosco-emiliano, nei territori degli attuali comuni di Marzabotto, Monzuno e Grizzana Morandi, furono tra i più efferati ai danni della popolazione civile. Il tragico bilancio fu di 770 morti di cui 217 bambini, 132 anziani e 392 donne. Claudio Bolognini, autore del romanzo partigiano Stella Rossa (Red Star Press, 2023), ricostruisce per Left quei giorni drammatici.

Settembre 1944, Appennino tosco-emiliano.
La Quinta Armata americana e l’Ottava Armata britannica premono sulla Linea Gotica. Il sistema difensivo tedesco pare abbia i giorni contati. Gli Alleati sono giunti a una manciata di chilometri dalla zona di Monte Sole, dove è asserragliata la brigata partigiana Stella Rossa. I partigiani possono scorgere con il cannocchiale le truppe alleate, ma in mezzo ci sono i tedeschi.
In un’area a sud-ovest di Bologna si è acquartierata la 16ª Divisione “Reichsführer-SS”. La Divisione è costituita da truppe responsabili di stragi di ebrei in Unione Sovietica e unità adibite alla sorveglianza nei campi di concentramento. Nella notte tra il 28 e il 29 settembre, il maggiore delle Waffen-SS Walter Reder raduna il suo battaglione esplorante nei pressi della valle del Setta. Il piano d’attacco viene illustrato dal maggiore Helmut Loos, del servizio spionaggio e controspionaggio delle SS. La missione consiste in un’operazione di rastrellamento e annientamento di partigiani e civili.
La popolazione è fuggita dalla vallata rifugiandosi sulle colline per timore di violenze da parte dei tedeschi in ritirata. Sono soprattutto vecchi, donne e bambini, e pensano che la loro manifesta debolezza li protegga naturalmente. E poi sulle alture ci sono i partigiani della Stella Rossa e si sentono protetti. Conoscono bene gli uomini della brigata, sono quasi tutti del posto e tra loro ci sono figli, fratelli, padri, mariti, fidanzati, amici e compagni di scuola.
Le quattro compagnie del battaglione di Reder si dislocano lungo il torrente Setta per iniziare la manovra di accerchiamento. Il maggiore Reder ha avuto l’incarico dal generale Max Simon, comandante supremo della 16ª Divisione “Reichsführer-SS”. Il generale Simon aveva già ordinato stragi di civili in Toscana, la più cruenta a Sant’Anna di Stazzema.
La brigata Stella Rossa, capeggiata dal comandante Lupo (Mario Musolesi), combatte con tenacia i nazifascisti e compie azioni di sabotaggio alle vie di comunicazione. L’ordine che giunge dal comando tedesco recita: “La resistenza partigiana deve essere infranta senza riguardo ai civili”.

La strage
Il battaglione esplorante di Reder deve attaccare da est verso occidente, inoltrandosi verso Monte Termine e Monte Sole. È stato attrezzato un treno corrazzato per cannoneggiare la zona e proteggere l’operazione.
Le truppe si spostano in silenzio oltre la strada principale in Val di Setta. Reder resta al casolare del comando per dirigere via radio le operazioni. Gli uomini incaricati del rastrellamento hanno mappe aggiornate e, con l’aiuto di spie fasciste, individuano ogni sentiero e casolare.
Il comandante Lupo e il vicecomandante Gianni (Giovanni Rossi) sono con altri partigiani nel vicino casolare di Cadotto. Tutti credono che i tedeschi si stiano preparando alla ritirata, ma la rete di informatori dei partigiani si è sfaldata e nessuno comunica loro i movimenti delle truppe.
Alle ore 6 del mattino di venerdì 29 settembre 1944, le quattro compagnie di Walter Reder si mettono in marcia.
Il massacro ha inizio.
Cadotto viene attaccato, il comandante Lupo ucciso, il vicecomandante Gianni ferito e i civili trucidati. Senza la guida del Lupo la brigata Stella Rossa è allo sbando. I pochi partigiani che rimangono sul terreno di battaglia sono costretti a ritirarsi: troppa differenza di uomini, mezzi e armamenti. La brigata ha solo armi leggere e vecchi moschetti con poche pallottole, non ha più ricevuto armi e munizioni dagli Alleati e non possono far altro che ripiegare.
Il massacro continua.
La popolazione atterrita cerca di salvarsi dalla violenza delle SS. Fugge terrorizzata dai casolari in fiamme e cerca rifugio nelle chiese. Vengono però profanati anche i luoghi sacri. Nella sola chiesa di Cerpiano, quarantaquattro persone indifese, in maggioranza donne e bambini, trovano morte nella cappella. Non vengono risparmiati nemmeno i preti. Don Marchioni viene fucilato ai piedi dell’altare della chiesa di Casaglia e i fedeli massacrati nell’adiacente cimitero. Decine di civili vengono sterminati senza pietà davanti alla chiesa di San Martino. Don Casagrande viene ammazzato insieme alla sorella. Don Giovanni Fornasini viene ucciso dalle SS dietro il cimitero di S. Martino mentre cerca di dare sepoltura a dei cadaveri martoriati.
Al termine di quei terribili giorni non c’è più vita in tutta la zona. I pochi superstiti, feriti e affamati, vagano nei rifugi di fortuna e nei boschi. Case, scuole, chiese, cimiteri e poderi sono distrutti. Ogni paese, frazione, borgo o casolare conta i suoi morti. Vengono trucidati persino donne incinte e anziani inabili. Centinaia di corpi giacciono insepolti e davanti alle stalle agonizzano animali squartati. I campi e i sentieri sono minati, molti cadaveri sono imbottiti di esplosivo e qualcuno è saltato in aria cercando di seppellire i corpi. Per fare la conta dei morti, non riuscendo a ritrovare tutti i cadaveri, si esaminano gli elenchi dell’anagrafe per un raffronto con i sopravvissuti.
La più grande strage nazifascista in Italia si è consumata in 115 luoghi diversi nei territori dei comuni di Marzabotto, Monzuno e Grizzana. Il bilancio finale dell’eccidio è di 770 vittime di cui 217 bambini, 132 anziani e 392 donne.
Una comunità intera è stata distrutta, e con essa un’antica cultura.
L’eccidio di Monte Sole si rivela un massacro pianificato. Una strategia ben collaudata dai nazisti in Italia. Lo scopo evidente è terrorizzare la popolazione civile per stroncare il sostegno attivo alla Resistenza.

I processi
Nel 1946 i primi processi vedono la condanna di due fascisti coinvolti nella strage (Lorenzo Mingardi e Giovanni Quadri). Il primo con la pena di morte, poi commutata in ergastolo. Il secondo con 30 anni, poi ridotti a dieci e otto mesi. Entrambi vengono in seguito liberati per amnistia.
Nel 1947 viene processato il feldmaresciallo Albert Kesselring (comandante supremo di tutte le forze tedesche in Italia) e condannato a morte, sentenza trasformata poi in ergastolo. Viene rilasciato nel 1952 senza aver mai rinnegato la sua lealtà a Adolf Hitler.
Il generale Max Simon viene processato a Padova e condannato a morte, sentenza poi commutata con il carcere e trasferito in Germania per scontarvi la pena. Viene liberato nel 1954.
Nel 1951 il maggiore Walter Reder viene condannato all’ergastolo con sentenza confermata nel marzo del 1954. Nel 1964 Reder si appella al sindaco di Marzabotto per ottenere il perdono dei sopravvissuti e ottenere la libertà. La comunità si esprime con un referendum: 288 votanti, 282 voti contrari al perdono, 4 a favore, una scheda bianca e una nulla. Un altro referendum nel 1984 ribadisce la contrarietà al perdono. Nel 1985 il governo Craxi decide la liberazione e lo rimpatria in Austria. Nel gennaio 1986, Reder dichiara al settimanale Die ganze Woche: «Non ho bisogno di giustificarmi di niente» e ritratta la richiesta di perdono del 1964.
Il maggiore Helmut Loos non viene mai ricercato e muore di vecchiaia a Brema il 19 agosto del 1988.

L’armadio della vergogna
Nel 1994 vengono rinvenuti 695 fascicoli presso la Corte militare d’appello di Roma. Recano il timbro ARCHIVIAZIONE PROVVISORIA, ma la data è del 14 gennaio 1960. I fascicoli sono nascosti in un armadio girato verso il muro, da allora denominato Armadio della vergogna. I documenti contengono notizie di ufficiali delle SS responsabili di crimini di guerra. Il ritrovamento permette un nuovo processo contro 17 imputati della 16ª Divisione “Reichsführer-SS”. Si può così giudicare chi ha compiuto attivamente e con consapevole adesione l’eccidio. Il processo vede le vibranti e commoventi testimonianze di alcuni sopravvissuti e parenti delle vittime del massacro.
Il 13 gennaio 2007 il Tribunale Militare di La Spezia ha condannato all’ergastolo dieci imputati per l’eccidio di Monte Sole.

Nella foto (dal libro di Claudio Bolognini Stella rossa, Red Press Star), i partigiani della Brigata Stella Rossa nella zona di Monte Sole. Da sinistra a destra, Adriano Lipparini, Pierino Bolognesi, Gino Gamberini, Rino Cristiani, Giuseppe “Pippo” Venturi e Sergio Beccucci

 

IL ROMANZO STELLA ROSSA

Claudio Bolognini, bolognese, autore di diversi libri dedicati a momenti conflittuali della storia politica e sociale italiana (tra cui uno con Fabrizio Fabbri sulla strage di Reggio Emilia del 1960), ha scritto Stella Rossa ispirandosi alla storia vera della leggendaria brigata partigiana che tenne in scacco i nazifascisti sull’Appennino tosco-emiliano. Uno dei protagonisti del libro, scandito da un ritmo concitato che ben restituisce il clima di quei giorni, è Paolo, un ragazzo finito in prigione per reati comuni e che viene liberato dai partigiani il 9 agosto 1944 dal carcere di San Giovanni in Monte insieme ai loro compagni di resistenza. Attraverso lo sguardo di Paolo, che per la prima volta viene a contatto con i partigiani e i loro ideali, si dipana la storia di Stella Rossa. Uomini e donne, storie d’amore di morte, tra i casolari sperduti sull’Appennino e la minaccia dei nazisti affiancati dalle odiose spie repubblichine. Il libro Stella rossa sarà presentato il 5 ottobre (ore 18) alla Casa della conoscenza di Casalecchio di Reno (Via Porrettana 360). Con l’autore dialogherà il giornalista Giorgio Tonelli (red).