L’idea di imputabilità dei minori di 14 anni è frutto di un dannoso approccio antiscientifico alla realtà e deresponsabilizza gli adulti. Tutti gli studi sui minori autori di reato in Ue e Usa dimostrano che un concreto supporto psicosociale ed educativo riduce al minimo il rischio di recidiva
Partiamo da un dato di realtà: prima della pandemia si è assistito ad una progressiva e significativa diminuzione dei reati commessi dagli adolescenti, a livello internazionale. La diminuzione è arrivata al 50% in alcuni Paesi tra gli adolescenti di età compresa tra i 14 e i 15 anni e al 65% tra i preadolescenti di 12-13 anni. Di converso, è oramai noto che stiamo assistendo ad una anticipazione della pubertà. Basti pensare che verso la metà dell’Ottocento le ragazze entravano in età puberale mediamente a 15 anni, mentre ora il primo menarca compare verso i 12 anni, seguite dai maschi con un distacco di circa due anni. Gli studi di neuropsichiatria infantile e gli studi sullo sviluppo in età adolescenziale hanno dimostrato una “immaturità fisiologica” negli adolescenti, tanto che, proprio per questo, dato l’approccio strettamente organicista ivi vigente, anche la Suprema corte degli Stati Uniti, nel 2005 (caso Roper vs Simmons) ha abolito la pena di morte per i minorenni. Un altro dato significativo risiede, inoltre, nel fatto che gli attuali adolescenti tendono più al ritiro sociale (vedi in proposito libro Hikikomori di Dell’Erba, Padrevecchi, Zulli, L’Asino d’oro) che alla trasgressione ed entrano nel mondo adulto con maggiore ritardo rispetto a prima.

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