Dopo la rimonta dell'ex capo di Gabinetto della Presidenta ora la competizione è aperta in vista del 19 novembre. Ma tra la politica del pancake, del centrista campione di voltafaccia e quella della motosega del "loco" di destra, il Paese è tra la padella e la brace

L’immortale peronismo contro il turbocapitalismo trumpiano. Il ministro dell’Economia, Sergio Massa, contro l’outsider, Javier Milei. Due visioni di mondo opposte sono state le più votate alle elezioni presidenziali che si sono tenute in Argentina il 22 ottobre. A dispetto dei principali sondaggi che davano “el loco” Milei avanti, Sergio Massa, con la sua coalizione “progressista”, Unión por la Patria, ha ottenuto il 36,7%, staccando di 7 punti percentuali il suo avversario alla guida della coalizione di estrema destra, La Libertad Avanza e ribaltando l’esito delle primarie dello scorso 13 agosto. Sullo sfondo la candidata di centrodestra di Juntos por el Cambio, Patricia Bullrich, che si attesta al terzo posto con il 24%, con la possibilità di fungere da ago della bilancia il 19 novembre, quando gli argentini si recheranno alle urne per il secondo turno. E questa è parsa subito una consapevolezza condivisa dai due leader in corsa per la Casa Rosada. Infatti, nei primi commenti a caldo entrambi hanno voluto rivolgere dei messaggi a quel bacino elettorale moderato che vale 6.267.152 voti. Se da un lato Massa ha sottolineato la volontà di formare «un governo di unità nazionale composto dai migliori, al di là della loro parte politica», Milei si è diretto chiaramente al popolo moderato, chiedendo di unirsi «contro il Kirchnerismo», auspicando di «lavorare insieme per mettere fine alla casta».

La motosega e il pancake: due visioni a confronto

In un contesto politico e sociale totalmente polarizzato e una crisi economica stagnante, con un’inflazione al 138% e un tasso di povertà che ha raggiunto il 40%, la campagna elettorale è stata intensa e senza esclusione di colpi. Non c’è dubbio che il candidato che ha lasciato il segno in queste presidenziali è stato Javier Milei. Un mix tra Trump e Bolsonaro in salsa argentina o, a tratti, anche qualche populista della destra europea, “El loco” ha subito catturato l’attenzione di gran parte del popolo argentino e dell’opinione pubblica internazionale. Economista e opinionista politico in tv, Milei si è definito anarco-capitalista. In realtà, ascoltando le sue uscite infelici e osservando il suo modus operandi spregiudicato, è un tipico neo-populista/neo-liberista di estrema destra che si presenta come il nuovo, l’anti-casta, ma che in realtà si muove da anni all’interno di quel sistema di potere che egli stesso vuole scardinare. Come rappresentazione plastica del suo messaggio elettorale appare nei comizi elettorali brandendo una motosega – come a Mar del Plata il 12 settembre – a simboleggiare le sue promesse di tagliare la spesa pubblica, eliminare i sussidi pubblici, abolire ministeri, chiudere la Banca centrale argentina contemporaneamente convertire al dollaro il sistema economico e, addirittura, rompere le relazioni con il Mercosur e la Santa Sede (con il papa non corre buon sangue). Insomma, «rompere con lo status quo». Altrettanto folli sono le sue dichiarazioni xenofobe, razziste, contro l’aborto, mortificando le vittorie, ottenute anche a costo della vita, di attivisti e attiviste dei movimenti femministi, lgbtqia+ e dei popoli originari. Ma forse, ancor più gravi, sono state le sue frasi negazioniste durante l’ultimo dibattito tra i candidati presidenziali, in cui ha sostenuto che «non erano 30mila desaparecidos, ma 8.753», e qualificato semplicemente come «eccesso» i crimini contro l’umanità perpetrati dall’infame giunta militare tra la seconda metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Sentenze azzardate rispetto a una stagione torbida guidata dai quei «Gorillas» che hanno aperto una ferita profonda all’interno del paese latinoamericano, non del tutto rimarginata. Difficile affermarlo con certezza, ma probabilmente hanno inciso negativamente su Milei a fine corsa elettorale.

Va detto che se in un primo momento le sue posizioni estremiste hanno spinto molti elettori, forse per disaffezione nei confronti della classe dirigente, a renderlo il candidato più eletto alle primarie, durante le battute finali della campagna elettorale, ha generato paura e incertezza. Il dato è che Massa, rispetto alle primarie, è riuscito a recuperare e a ribaltare i sondaggi. Bisognerà capire, più avanti, come il ministro in carica dell’Economia di un Paese con un’inflazione del 138,3%, le riserve della Banca centrale ai minimi termini e una moneta in costante svalutazione, sia riuscito a ottenere una vittoria inaspettata e lanciarsi da favorito verso il secondo turno del 19 novembre. Probabilmente la risposta è nel peronismo che, nonostante le metamorfosi, trascende dal contesto politico attuale e riesce sempre ad avere presa sull’immaginario collettivo della società argentina. Ma a proposito di metamorfosi, vale la pena conoscere il candidato di Unión por la Patria e capire perché viene chiamato negli ambienti politici «el panqueque», il pancake. Avvocato di professione e considerato un politico centrista all’interno del peronismo, Massa è un politico camaleontico che negli ultimi anni ha assunto posizioni diverse nei confronti del kirchnerismo. Capo di gabinetto della «Presidenta» tra il 2007 e il 2008; nel 2015 appoggia la candidatura della coalizione di centrodestra guidata da Macri (risultato vincente); nel 2018 dichiara «Cristina Kirchner dovrebbe essere in prigione». Sia nel 2019 che per queste elezioni ha siglato un accordo di coalizione proprio con lei. Un tira e molla con la Kirchner che gli è valso il soprannome di pancake, volta faccia. Durante la sua permanenza nel dicastero dell’economia, Massa ha visto accrescere la sua popolarità. Secondo l’opinione di più di un analista, il suo recente successo non solo è dovuto ad un programma dove vengono messi al centro i lavoratori e il sistema del welfare e di godere dello zoccolo duro peronista ma anche al suo «Plan Platita», cioè una serie di aiuti e benefici annunciati da Massa nelle ultime settimane per alleviare gli effetti dell’inflazione e della svalutazione monetaria e migliorare le sue possibilità elettorali. Tra gli altri, l’eliminazione dell’imposta sul reddito per quasi due milioni di lavoratori o il rimborso totale dell’IVA sugli acquisti alimentari effettuati con carta di credito fino alla fine dell’anno.

Analisi di una vittoria

Risulta convincente l’analisi della testata moderata Perfil secondo cui «Massa ha saputo incanalare il voto di paura di una società che guardava con timore al discorso di Javier Milei, un cambiamento radicale che genera adesione tra milioni di argentini, ma anche panico, per ciò che implica un salto nel vuoto». Ma come avverte il quotidiano di sinistra Pagina 12, la «vittoria della paura sulla rabbia, non può essere l’unico fattore» per spiegare il successo di Massa. Il merito del candidato, per il momento, è quello di aver saputo far convergere sulla sua figura quasi tutte le forze del progressismo argentino. Ma non basterà il 19 novembre.
Dunque, si apre (quasi) un mese di campagna elettorale in cui Sergio Massa dovrà essere in grado di convincere la sinistra che si è presentata da sola alle elezioni (che rappresenta il 2,7% dei voti), ma soprattutto quel centro che aveva deciso di appoggiare la coalizione Juntos por el Cambio, come la Union Civica Radical (quella di Raul Alfonsin, primo Presidente democratico dell’Argentina post-dittatura). Non è un caso, infatti, che in queste ore frenetiche siano in corso delle trattative con esponenti del radicalismo più vicini alle posizioni della coalizione progressista e che temono il salto nel vuoto rappresentato dal «loco» Javier Milei.