Di un artista che è vissuto una manciata di anni, trentatrè per l’esattezza, che ha vissuto rapinosamente la sua vita tra belle donne, motociclette, in una Roma dei primi anni sessanta che avrebbe creato il quadrilatero dell’arte e la scuola di piazza del Popolo, con amici come Kounellis, Schifano, Mattiacci, Penone, Tacchi, Ceroli e maestri come Toti Scialoja; di un artista che recuperava attrezzi agricoli, ruderi su prato, labbra di donna e dorso di negra, utilizzando rafie, materiali sintetici, ferri e bitume; che si faceva fotografare come un modello giocando tra lance da pastore, grandi rastrelli e zolle di terra e che dondolava su finte liane e dentro un mare tagliato a fette; insomma di un artista siffatto che chiese ad un certo momento al padre di distruggere molte delle sue opere, e che lavorava in una finta officina dove solo pochi amici avevano realmente accesso; di un artista che per mantenersi agli studi e alla dolce vita di quegli anni scelse di entrare come grafico e illustratore nella Lodolo Film, una di quelle agenzie pubblicitarie che hanno fatto la storia dell’animazione e di certa televisione, come la Pagot; e che pare sia stato scenografo e anche attore; ebbene di un’artista siffatto, le cui vere grandi mostre arrivarono subito già il giorno dopo della sua scomparsa, sembrerebbe alquanto improbabile oggi proporre qualcosa di nuovo, di veramente inedito e determinante al mondo dell’arte. E invece il nostro tempo distratto, compulsivo e dispersivo insieme, rapinoso e in fondo con una corta memoria, ha riservato a chi scrive questo pezzo la ventura di ritrovarsi un giorno tra le mani l’unica animazione integrale e perfettamente conservata di Pino Pascali: Intermezzo 23 del 1966. Un’opera di grafica applicata, perché nata appunto come stacco pubblicitario per l’allora programma concorrente di Carosello, per il secondo canale della Rai, che si chiamava appunto Intermezzo. Un progetto ambizioso del nascente secondo canale che presto venne interrotto per altre avventure televisive, ma che resta un esempio luminoso e indimenticabile di una televisione che dava ampio spazio ai geni della pittura, del disegno, dell’animazione appunto, vi ricordate Cavandoli dell’Omino Lagostina? Dopo un lavoro di due anni insieme all’Archivio per l’Opera Grafica di Pino Pascali che ne ha autenticato il ritrovamento e ricostruito la sequenza, e con il prezioso e fondamentale aiuto di Daniela Ferraria ed altri storici dell’arte e dell’animazione come Marco Giusti, Anna D’Elia, Bruno di Marino, Simonetta Lux, Roberto La Carbonara, e un ricordo di prima mano di Ernesto Bassignano, riesco a raccogliere l’intero lavoro, anche ricostruito digitalmente da Marco Schiavoni nel suo laboratorio di Spoleto, in un libro da poco uscito per la NFC edizioni dal titolo appunto Pino Pascali/Intermezzo 23 con la curatela appunto di chi scrive. Un QR sull’ultima pagina consente di puntare il telefonino e vedere l’animazione spiegata, dettagliata, ricostruita. Nel libro trova spazio anche un lungo immaginario monologo di Pino Pascali dove ad un certo punto il grande poeta Nanni Cagnone traduce per il lettore Paranoid Android dei Radiohead, Insomma è come entrare dentro i segreti di una pagina della televisione scomparsa e di un modo di fare animazione come lo realizzava Walt Disney. Si tratta di 51 scene ricostruite e rimesse in sequenze, ma in realtà consta di decine e decine di movimenti e tavole suddivise tra lucidi e acetati, grafiti, scomposizioni a pastello, tutte della stessa misura millimetrica di 18 per 22 cm, alcune su carta giapponese da disegno. Con in bella vista i tipici forellini rettangolari e tondi per la reggetta che serviva per sospenderli e poi filmarli dalla cinepresa. Così funzionavano le animazioni un tempo. Racconta la storia di tre Postero’s, tre personaggi da barzelletta; un tedesco, un generale francese e un inglese, alle prese con ritrovamenti archeologici ed imprevisti, come diceva Pascali, di oggetti «di diecimila anni fra» dei quali i tre omini non conoscono l’uso e il funzionamento. E questo scatena una serie di gag che nascono dallo spostamento del senso e del segno, a volte tramite un uso quasi decontestualizzato ad arte degli oggetti. Tutto nell’animazione ruota attorno al ritrovamento di un misterioso oggetto che altro non è se non una macchina fotografica e verso la cui funzione tutti e tre i personaggi si accaniscono uno alla volta, restandone ogni volta delusi, fino al gesto finale del Gran Generale che decide di distruggerla perché non ha restituito l’immagine che si aspettava. Sembra un pensierino della sera, uno sketch animato per ritardare il sonno dei ragazzi dell’epoca, ma in verità nasconde alcune delle tematiche centrali del dibattito culturale degli anni Sessanta, come acutamente scrive Anna D’Elia nel suo saggio: il ruolo dell’arte in confronto alla scienza e alla tecnologia, la relazione tra pensiero magico e ragione, tra progresso e regresso. Tutto si svolge in pochi minuti, tra risate e consigli d’acquisto, gag e capitomboli, colpi di clava e macinacaffè. Erano gli anni in cui la pubblicità somministrava ancora pillole di filosofia e gli artisti si mimetizzavano da grafici. Pascali lavora con gli oggetti e si preoccupa in poche parole che il consumismo possa, privilegiando l’uso degli oggetti, cancellarne il loro valore rituale, quello che invece avevano nelle culture arcaiche e contadine. Il futuro appare per Pascali dunque nell’accezione di Walter Benjamin e tutto sta nel mantenere vivo lo stupore, l’epifania del segno e dell’incontro. L’artista smonta gli oggetti non tanto per ricostruirne di nuovi, ma per disegnare con il loro cambiamento di senso una nuova visione del mondo. Come fosse un selvaggio che solo inseguendo il limite stesso della materia determina la vera grande scoperta. Spesso Pino Pascali si è difatti definito un uomo che cammina nudo, poi Edoardo Sanguineti arriva ad appellarlo persino novello Adamo.
In Intermezzo 23 abbiamo così inseguito l’idea pascaliana per eccellenza che il mondo è come un grande meccano composto da tanti pezzi diversi che solo incastrandoli uno nell’altro si riesce ad esplorare una o l’altra possibilità. Non necessariamente interessa il buon finale. Ma quello che succede nel mezzo. La storiella che ci racconta Intermezzo 23 ha come sottotitolo appunto “A mille anni fra”. Frase pascaliana, che ho ritrovato nei suoi sketches disegnati, proprio a significare quanto la lezione di De Martino sia entrata in lui e l’inganno della Taranta tutto da sfatare. I suoi Posteros che vengono dal futuro, ma che adoperano la clava; questo giustifica che la macchina fotografica della sequenza possa diventare come Hal 9000 di Stanley Kubrick. Pascali artista ma in fondo ancora cavernicolo del futuro.
E proprio in questi giorni, che ci ha lasciato il grande Luca Maria Patella, che del cinema sperimentale anche ha fatto uno dei suoi credi e linee di forza, ripenso ad una frase segreta che mi disse in una delle sue ultime importanti interviste, riportata nel libro, quando finimmo a parlare inevitabilmente di Pino Pascali e della loro amicale collaborazione in SKMP2 del 1968, film sperimentale che voleva essere una roba alla René Clair, stile Entr’acte, con questi personaggi che appaiono all’improvviso evocati dalla bacchetta del Mago, impersonato da Fabio Sargentini e poi, così come arrivano, spariscono, con un gesto, una smorfia, un sorriso. Pino Pascali abbandona al rigagnolo del finto mare una barchetta di finta carta che si perde, là dalle parti di Fregene, a pochi passi dalla casa di Alberto Moravia, dove avevano scelto di girare e facendo questo guarda poi Patella e quasi accenna un sorriso, come a dire: questo l’ho fatto, ho affossato il moderno e la classicità e ora? Beh, dopo, se in quell’assurdo settembre del 1968 non ci fosse stato l’ancor più assurdo incidente in motocicletta che lo strappa alla vita a soli trentatrè anni, i due avrebbero fatto insieme un altro film in cui Patella avrebbe ripreso Pino Pascali costruire un grande nido, un altro, e poi tentare da quel nido il volo e sicuramente altro. Come già poi avrebbe fatto Gino De Dominicis con i suoi Tentativi di volo l’anno successivo, da qualche parte sulle montagne appostato, vestito rigorosamente di nero, come gli chansonnier maudit, come Jacques Brel o i piccoli grandi Gufi, con quell’idea di attirare l’attenzione di chi guarda solo sul gesto, sul filo sottile della sagoma, quasi ad annullare ogni orizzonte, ogni confine, qualsiasi altra distrazione. Non importa il risultato, la riuscita o meno del tentativo. Così probabilmente anche a Pino Pascali non sarebbe importato di riuscire realmente a volare. Arte che tenta, che affossa e che nello stesso concentra l’attenzione sul puro gesto, sulla sagoma dell’opera stessa. Sul suo puro profilo.
L’appuntamento: il libro Pino Pascali Intermezzo 23 (NFC edizioni) è stato presentato il 26 ottobre al MaMbo di Bologna. Con il curatore del volume Jonathan Giustini, Ernesto Bassignano, storico cantautore e giornalista, Claudia Lodolo, membro dell’Archivio per l’Opera grafica di Pino Pascali, Lorenzo Balbi, direttore MAMbo.