Oggi si parla molto di Albania, ma “dimenticando” quello che fu il drammatico esodo del 1991 verso l’Italia, seguito al crollo del regime totalitario di Enver Hoxha, una delle più feroci dittature dell’Est Europa intrisa di intolleranza ideologica. Se nel nostro Paese, in questi 30 anni e più, ci si è ritrovati a parlare di albanesi lo si è spesso fatto privilegiando soprattutto una narrazione negativa, senza percepire davvero la loro reale presenza. Gli stereotipi, si sa, fermano la crescita e l’arricchimento interculturale di un Paese. Come vediamo sempre più in questi giorni sono appannaggio di chi, incline ad un nazionalismo di passata memoria, ne rivendica nostalgia e valore. Muovendoci allora in un terreno del tutto diverso, fertile di idee e trasformazioni culturali, proponiamo ai lettori di Left il volume Donne d’Albania in Italia. Riflessioni, testimonianze, emozioni, a cura di Rando Devole e Claudio Paravati (ComNuovi tempi, 2023) articolato in 40 saggi e testimonianze di donne albanesi che oggi vivono in Italia. Sarà presentato il 10 novembre negli spazi della Biblioteca antirazzista Carminella di Roma. Parliamo di un libro nato da viaggi pieni di incontri e che suggerisce una ricerca poetica e antropologica. Che siano poi due curatori, all’ascolto di un poliedrico collettivo di voci di donna, ci sorprende e fa ben sperare. “Abbiamo avuto la fortuna di conoscere un mondo femminile pieno di energie, talenti, intelligenze, professionalità, protagonismi, ma anche di generosità, sensibilità, umiltà” racconta Devole. “Un mondo per molti versi sconosciuto che ha bisogno di ascolto, perché ha davvero qualcosa da dire alla società. Offrire spazio alle loro riflessioni e accendere un microfono per le voci non è stato solo un momento di crescita per noi, ma anche una urgenza”. Una delle maggiori sfide in cui l’Italia e l’Europa da tempo si trovano dunque di fronte, è di certo anche la recente storia dell’immigrazione albanese, con la sua “forma emblematica e i suoi sviluppi, inclusa la sua componente femminile”. Una sorta di “bussola per orientarsi nei mari agitati dell’attualità e fornire un glossario per capire la realtà migratoria di oggi, e per costruire il domani”. Se infatti, in una prima fase migratoria riconducibile agli anni Novanta la componente maschile è stata preponderante, dagli anni Duemila in poi quella femminile ha preso a crescere costantemente, determinando “quel fenomeno che gli studiosi chiamano femminilizzazione dei flussi migratori”. Volendo però superare quella sorta di sistematico utilitarismo economico che viene costantemente attribuito alla realtà dei flussi migratori, diventa fondamentale riconoscere le persone, la complessità delle vite degli individui e delle comunità, tutti aspetti che nel libro emergono attraverso profonde riflessioni narrate con estrema delicatezza anche quando le autrici tornano a ricordare la triste condizione di sudditanza nei confronti di padri, fratelli e mariti, data dall’antica norma consuetudinaria del Kanun. Un codice medievale tramandato oralmente che, sebbene abolito da tempo, continua ad essere presente in alcune zone del Paese, “regolando” rapporti sociali e familiari, dove è ancora forte la memoria di “padri che davano alle figlie assieme alla dote, anche un proiettile, legittimando così il diritto del marito a uccidere la moglie nel caso lei non fosse stata abbastanza ubbidiente”.
È lecito forse pensare che, nel protrarsi di una delle più complesse realtà culturali, le donne albanesi abbiano sviluppato una forte “logica di resistenza” preservando una propria “silenziosa” identità che, unita ad uno sguardo colmo di fiducia e speranza, hanno saputo trasmettere nel tempo anche attraverso l’arte. Da Marsida Koni – pianista albanese di successo – alle scrittrici femminili in lingua italiana come Anilda Ibrahimi o Elvira Dones, che hanno determinato ed influito contesti artistici culturali importanti, dialogando e trasmettendo – in misura diversa – tracce della loro realtà di partenza.
“Passano gli anni e arrivano i cambiamenti”, scrive Eridan Këlliçi, oggi psicologa e psicoterapeuta. “Qualcosa si muove. L’arrivo della democrazia ha creato un terremoto nella società. Se fino a ieri eravamo una società fortemente patriarcale, ora per fortuna qualcosa si è trasformato. Vedo però una donna smarrita, alla ricerca di punti di riferimento che non ha più. Ha delle possibilità: uscire dalle vecchie strutture sociali, andare via dal Paese, lasciare tutto e scappare via verso orizzonti sognati, Paesi con luci più brillanti. Vedo questa meravigliosa donna che si sente smarrita, ma continua a cercare e nella ricerca, per la prima volta nella sua vita, può rivolgere lo sguardo dentro di sé e trovarsi, riconoscersi nelle nuove dimensioni più intime e nascoste”.
In una coraggiosa sfilata di profili femminili, tra un prima e un poi, tra nostalgie e ritorni, identità, tabù e complessi, il libro si compone di percorsi che, intrecciandosi l’un l’altro, restituiscono ai lettori una unica voce di donna. “L’Aquila e il mascara. Riconoscimento, identità, cittadinanza”, ultimo saggio a cura di Amarilda Dhrami, chiude questo magistrale lavoro collettivo-femminile sostituendo al concetto di cittadinanza quello di identità umana. “Nascere, crescere, studiare in Italia, non basta per ottenere la cittadinanza se si hanno origini straniere. Questo lo sanno bene i cittadini albanesi, così come lo sa anche quel milione e mezzo di ragazzi e ragazze che vivono nel limbo di essere italiani senza cittadinanza. (…) Allora, se non basta nascere, crescere, studiare, parlare nel dialetto della città in cui si è cresciuti, essere attivi politicamente e socialmente in una Paese, cosa serve? (…) Gli esseri umani sono tali perché immaginano, per la fantasia e quindi uomo, donna e bambino seppur diversi sul piano fisico, sono allo stesso tempo uguali sul piano della realtà umana profonda legata al pensiero senza coscienza per immagini. Donne d’Albania, donne d’Egitto, donne d’Eritrea, non importa, sono tutte donne, donne del mondo e quello che conta è che ognuna realizzi a proprio modo la sua identità”.
Un pensiero che, andando oltre il principio dello ius sanguinis, del riconoscimento o meno da parte di uno Stato, supera quel razzismo latente proponendo un nuovo umanesimo.
È allora forse da qui che dovremmo tutti ripartire?