Leggere i conflitti sotto un paradigma di osservazione socio-economico è diventato ormai desueto con il tramontare del pensiero marxiano, così come leggere le conflittualità in corso sotto il paradigma della lotta di classe. Il potere economico, tuttavia, è determinante come quello politico e militare. Nell’analisi del conflitto israelo-palestinese, tuttavia, le questioni prettamente economiche sono largamente ignorate rispetto a quelle più scenografiche e brutali dell’azione politica e specialmente militare.
Tornando a Marx ed Engels, il conflitto tra le nazioni padronali e proletarie è un modo per intendere il conflitto di classe su scala transnazionale. Come ricorda Domenico Losurdo, la lotta di classe si struttura in più livelli, ovvero si definisce nell’interazione e nell’intersezione tra diversi piani di scontro e conflitto: uno interno, uno tra nazioni e uno di genere. Cercheremo di spiegare il conflitto in atto attraverso queste tre prospettive.
Incominciamo con il ricordare che lo Stato di Israele è un’economia avanzata, con un Pil pro-capite, stime del Fondo monetario internazionale, che si aggira intorno ai 41mila dollari (per intenderci, l’Italia si trova in una posizione più bassa, ovvero con un Pil pro-capite sopra i 35 mila). Israele è dunque uno Stato ricco. Da dove deriva questa ricchezza? Il Paese è all’avanguardia per ricerca e sviluppo nei settori delle nuove tecnologie e vanta un alto livello di produttività: quattro volte superiore la media dei Paesi Ocse. Tuttavia, le potenzialità dell’industria sono limitate dalla mancanza di materie prime, energia a basso costo, ristrettezza del mercato nazionale e disponibilità di manodopera, specialmente qualificata. Israele, tuttavia, può contare su un “esercito di riserva” di lavoratori consistente che si estende potenzialmente su tutta la popolazione attiva in Cisgiordania – principalmente – e potenzialmente anche a Gaza. Lasciamo parlare i numeri.
Su una forza lavoro che conta più di 400mila unità (su una popolazione totale di poco più di nove milioni di abitanti), i palestinesi impiegati in Israele sono circa 100mila su oltre quattro milioni di abitanti distribuiti tra la Cisgiordania e Gaza. Un numero più che consistente della forza lavoro palestinese lavora dunque in Israele. Secondo fonti Reuters, Tev Aviv già dal 2022 ha iniziato non solo a concedere visti di lavoro per il settore agricolo ed edilizio, ma anche per quello manifatturiero ed informatico: c’è disperato bisogno anche di forza lavoro qualificata che Israele è disposta a reclutare tra i palestinesi – oggi sono presenti in Palestina molte università che garantiscono più che buoni livelli di istruzione e qualificazione -. Secondo una ricerca del Palestine economic policy research institute (Mas), Israele sfrutta la dipendenza economica della Cisgiordania per attingere quanto serve alla propria economia ottenendo in cambio un implicito riconoscimento e sostegno alla propria occupazione militare.
Di fatto Israele sfrutta l’indotto sottosviluppo palestinese per attingere manodopera a basso costo e recentemente anche manodopera specializzata senza evidenti contropartite, anzi beneficiando di una forza lavoro meno incline alla lotta sindacale, alla richiesta di diritti e salari adeguati. Sembra di tornare alle condizioni imposte dalle leggi sui poveri nell’Inghilterra dei primi dell’ottocento, quelle descritte così bene da Dickens nel suo romanzo Oliver Twist.
Più il lavoro è pagato poco, più i profitti salgono verso l’alto. I diritti sul lavoro non sono pienamente garantiti per i lavoratori palestinesi, neanche per i minori. Secondo Human rights watch nel 2015 centinaia di bambini palestinesi lavoravano in condizioni ritenute “pericolose” negli insediamenti israeliani. Anche il lavoro femminile è fortemente sfruttato, specialmente nei settori classici dell’agricoltura e della piccola manifattura con orari di lavoro che rasentano le 10 e le 12 ore al giorno (basti ricordare che in Italia gli operai reclamarono la riduzione dell’orario di lavoro dalle 12 alle 10 ore nel lontano 1913). Inoltre, circa il 45% della forza lavoro palestinese viene occupata grazie all’intermediazione di agenti che trattengono però 1/3 del salario, anche dopo la riforma del 2020.
Israele ha sempre beneficiato “dell’esercito di riserva” fornito dalle maestranze palestinesi. Come ricorda la politologa Leila Farsakh dell’Università del Massachusetts di Boston, i territori palestinesi vengono usati come bacino per il reclutamento di manodopera a basso costo. Se le due economie rimangono formalmente distinte fino al 1993, con l’unione doganale lo Stato più forte, ovvero Israele, impone il suo dominio economico sulla debole entità palestinese. Sia la prima che la seconda intifada, che bloccano il flusso di lavoratori dai territori, hanno mostrato quanto fosse necessaria e fondamentale la disponibilità di forza lavoro palestinese nel mandare avanti l’economia israeliana. Secondo il Fondo monetario internazionale, l’arresto della crescita israeliana tra il 2000 ed il 2005 – per via della II intifada – è stata causata anche dall’arresto del flusso di manodopera.
La recente apertura delle ostilità rischia di causare molti più danni all’economia israeliana rispetto a quanto si pensi. Secondo l’Economist infatti, non ci sono abbastanza lavoratori per la guerra e per sostenere al contempo l’economia, considerando anche il blocco dei lavoratori palestinesi provenienti dalla Cisgiordania. L’arresto dell’industria del turismo, il settore più importante dell’economia israeliana dopo il settore tecnologico, rischia di inaridire il flusso di moneta forte in entrata per sostenere il corso della moneta nazionale (lo Shekel, anche se Israele ha molte riserve di valuta pregiata) e il valore dei titoli del debito pubblico (al 60% sul Pil). L’economia israeliana non era in piena salute prima della guerra e un prolungarsi del conflitto potrebbe causare pensati contraccolpi interni.
Emerge così come lo scontro politico e militare in atto si può traslare anche nella dimensione economico-conflittuale tra le forze del capitale (rappresentate da Israele) e le forze del lavoro (rappresentate dalla Palestina) dove il dominio delle prime sulle seconde vuol dire garantirsi nel tempo il continuo della disponibilità di manodopera “docile” e a “buon mercato” essenziale alla crescita economica israeliana. Le diseguaglianze di trattamento tra lavoratori israeliani e palestinesi a parità di mansione, e quelle a sua volta di genere all’interno della forza lavoro impiegata, mostrano come l’evidente conflitto politico-militare si possa altresì identificare come l’estensione di uno scontro socio-economico più silente, ma non meno coercitivo, riguardante il tentativo delle forze del capitale di garantirsi nel tempo il controllo e l’accesso alla forza lavoro di cui hanno bisogno. Le timide aperture ai permessi di lavoro anche alla popolazione di Gaza, potrebbero crescere esponenzialmente se nella regione ci fosse un’entità politica più collaborativa di Hamas, come ad esempio quella presente in Cisgiordania. Controllare Gaza vorrebbe dire avere accesso ad una vasta quota di manodopera giovane, docile e a basso costo per sostenere la crescita israeliana nei prossimi anni. Oltre alla dimensione politico-militare-strategica, a Gaza si sta combattendo anche una delle innumerevoli battaglie a livello transnazionale e nazionale tra le forze del capitale e quelle del lavoro.
L’autore: Giampaolo Conte, PhD Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo Università Roma 3, Research Associate ISEM-CNR, editorial assistant The Journal of European Economic History
Nella foto: frame di un video di Human right watch sul lavoro minorile palestinese nelle colonie in Cisgiordania, 2015