Se il conflitto in Ucraina ci ha mostrato quanto l’Occidente avesse difficoltà ad esercitare influenza sul posizionamento dei Paesi latinoamericani nelle vicende internazionali, l’atroce guerra che imperversa da un mese nel quadrante mediorientale, ne è un’ulteriore conferma. Lo avevamo visto con la scelta di non aderire alle sanzioni degli Usa e della Unione europea contro la Russia.
E lo abbiamo visto recentemente all’Assemblea delle Nazioni Unite lo scorso 27 ottobre, in cui la maggioranza dei rappresentanti della regione ha votato a favore della risoluzione giordana per il “cessate il fuoco”. Solo Guatemala e Paraguay hanno votato contro, mentre Uruguay, Panama e Haiti si sono astenuti.
Anche su questo fronte, l’America Latina è sempre più parte attiva del cosiddetto Sud Globale che sui temi caldi di politica internazionale non si allinea con l’occidente, ma si muove come uno spazio geopolitico dal perimetro ben definito.
Ma andiamo con ordine. Storicamente i Paesi dell’Emisfero Sud Americano hanno sempre sostenuto la causa palestinese. Il forte sentimento anti-imperialista (in realtà mai sopito) di quelle nazioni nate proprio dalle guerre contro un’occupazione secolare che ha prodotto, in molti casi, una vera e propria pulizia etnica, è stato il collante principale della solidarietà latinoamericana verso il popolo palestinese.
Da quando lo scontro si è riacceso, le reazioni sia all’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, che gli incessanti bombardamenti israeliani nella Striscia di Gaza, hanno provocato reazioni con diverse sfumature nelle cancellerie latinoamericane, rispondendo, oltre al dichiarato posizionamento geopolitico, anche delle esigenze interne, che siano di legittimazione ideologica o per via della presenza di grandi comunità ebraiche e palestinesi in alcuni Paesi.
Bukele: un palestinese tra Hamas e las maras
Tra le posizioni più interessanti da porre sotto i riflettori vi è senza alcun dubbio quella del presidente salvadoregno, Nayib Bukele. Di origine palestinese, il giovane e ricco sceriffo del piccolo Paese centroamericano è conosciuto in tutto il mondo per la sua guerra contro le bande criminali del piccolo paese centroamericano, ma anche per le denunce di Amnesty International di gravi violazioni di diritti umani per detenzioni arbitrarie, torture e maltrattamenti. A seguito degli attacchi terroristici del 7 ottobre ha dichiarato che «la cosa migliore che potrebbe accadere al popolo palestinese è che Hamas scompaia completamente. Quelle bestie selvagge non rappresentano i palestinesi». Carlos Malamud, uno dei più importanti politologi latinoamericanisti, vede in queste dichiarazioni «un parallelo tra il terrorismo di Hamas e quello delle bande che combatte duramente nel suo Paese». Un aspetto reso ancor più esplicito quando Bukele, a proposito della causa palestinese, ha definito come «grave errore» sostenere Hamas, perché equivalrebbe a schierarsi con la «Mara Salvatrucha», una delle più pericolose gang salvadoregne.
Argentina: una posizione difficile
L’Argentina ospita la più cospicua comunità ebraica in America Latina (450mila persone) e gli attacchi del 7 ottobre in terra israeliana hanno riportato alla mente degli argentini i tragici attentati antisemiti degli anni Novanta che provocarono la morte di oltre cento persone. Non è un caso che il presidente argentino, Alberto Fernández, abbia subito espresso la sua «forte condanna e ripudio del brutale attacco terroristico perpetrato da Hamas dalla Striscia di Gaza contro lo Stato di Israele». Contestualmente ha attivato tutti i canali per far fare ritorno in patria ai connazionali rimasti in Israele. Tuttavia, la scorsa settimana, la Casa Rosada, in un comunicato, dopo aver ribadito di riconoscere «il diritto di Israele all’autodifesa» ha affermato, riferendosi al bombardamento di un campo profughi nella Striscia, che «nulla giustifica la violazione del diritto umanitario internazionale e l’obbligo di proteggere i civili nei conflitti armati, senza distinzioni di alcun tipo». Una posizione che ha provocato prontamente la reazione della comunità ebraica locale che ha chiesto di differenziarsi dalle «posizioni pusillanimi di alcuni Paesi della regione».
Boric, Petro e Castro richiamano gli ambasciatori
Il Cile, la Colombia e l’Honduras, a seguito della feroce e indiscriminata controffensiva nella Striscia di Gaza, hanno richiamato i propri ambasciatori a Tel Aviv. Partendo dal Paese centroamericano, il 3 novembre il governo di Tegucigalpa ha preso questa decisione «a causa della grave situazione umanitaria in cui versa la popolazione civile palestinese nella Striscia di Gaza».
Pochi giorni prima era stata la volta del Cile, che ospita la più grande comunità palestinese fuori dai confini mediorientali. Il presidente Boric di fronte «alle inaccettabili violazioni del diritto internazionale umanitario», ha richiamato il proprio rappresentante diplomatico perché «le operazioni militari israeliane sono diventate una punizione collettiva della popolazione civile palestinese a Gaza». Per sgomberare il campo da ogni dubbio, il leader cileno ha preferito sottolineare la sua condanna, «senza esitare», nei confronti di Hamas, ma niente, però «giustifica questa barbarie» nella Striscia.
Diverso il discorso per Bogotà e Santiago. Petro, sin dall’inizio del conflitto si è distinto per le sue posizioni in difesa del popolo palestinese, diventando uno dei Presidenti più critici dell’azione militare israeliana e creando malumore all’interno del Paese per questo uso smodato di dichiarazioni via social, su temi di politica estera che dovrebbe seguire un iter istituzionale. Tra le sue uscite su X, vi è quella in cui ha rilanciato un’indagine di Amnesty International che accusa l’esercito israeliano di aver fatto un uso indiscriminato di fosforo bianco in un attacco nel sud del Libano il 16 ottobre. Pochi giorni dopo, sempre sulla stessa piattaforma, ha fatto sapere di aver richiamato l’ambasciatore spiegando che «se Israele non ferma il massacro del popolo palestinese, non possiamo essere presenti lì».
Messico e Brasile: un’equidistanza difficile
Le due potenze regionali, Messico e Brasile, guidate rispettivamente da López Obrador e Lula, in questi giorni hanno virato verso la moderazione, ma con qualche attrito tra i diversi livelli istituzionali. Ad esempio, se la segreteria del dipartimento degli esteri messicano ha condannato gli attacchi di Hamas e invitato palestinesi e israeliani a ricercare «una soluzione globale e definitiva del conflitto», il presidente da Ciudad de México ha preferito fare leva sul suo mantra pacifista «non vogliamo la guerra» e condannare «l’uso della forza contro i civili».
Dal canto suo, il Brasile ha assunto una posizione più moderata perché, al momento dell’escalation, aveva la presidenza di turno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Dopo aver condannato gli attacchi terroristici di Hamas, ha più volte chiesto il cessate il fuoco e l’intervento della comunità internazionale. Per questo il presidente Lula sta lavorando affinché si trovi un consenso all’interno delle Nazioni Unite su una risoluzione per «sbloccare la situazione in Medio Oriente» e «porre fine alle sofferenze umane da entrambe le parti».
L’Asse bolivariano
Il blocco bolivariano, formato da Cuba, Venezuela, Nicaragua è stato quello più coerente. I tre regimi sono gli unici a non aver condannato gli attacchi del 7 ottobre. Al contrario, hanno giustificato le incursioni di Hamas. Il presidente nicaraguense, Daniel Ortega, si è dichiarato «sempre solidale con la causa palestinese, sempre fraterno, sempre vicino» e si è opposto all’«aggravamento» del “terribile» conflitto israelo-palestinese. Sulla falsariga, Maduro in Venezuela e Diaz-Canel a Cuba hanno ricordato che il conflitto non è iniziato il 7 ottobre, ma che l’offensiva dei miliziani è stata la conseguenza, come ricorda il presidente cubano, di «75 anni di violazione permanente dei diritti inalienabili del popolo palestinese e della politica aggressiva ed espansionistica di Israele». Per questo, da Caracas si chiede la fine dei «bombardamenti indiscriminati» e lo stop al «genocidio». All’asse bolivariano si è aggiunta la Bolivia, che non ha mai condannato apertamente gli attacchi di Hamas. Inoltre, il governo di La Paz ha recentemente deciso di rompere le relazioni diplomatiche con Tel Aviv «nel ripudio e nella condanna dell’aggressiva e sproporzionata offensiva militare israeliana nella Striscia di Gaza, che minaccia la pace e la sicurezza internazionale», richiamando, contestualmente, a un cessate il fuoco.
Foto di Palácio do Planalto – https://www.flickr.com/photos/51178866@N04/52622340520/, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=128789472