«È una storia di Resistenza. Un romanzo di avventura, di guerra, di spionaggio. Vagamente western», dice Giovanni Dozzini, autore de Il prigioniero americano, pubblicato da Fandango e che sarà presentato il 16 novembre a Parma (alle 18 alla libreria Fiaccadori da Davide Barilli)
Il prigioniero è il console degli Stati Uniti d’America Walter Orebaugh, tenuto confinato prima a Gubbio e poi a Perugia, e scappato nel gennaio 1944 per unirsi alla Brigata San Faustino, banda partigiana composta da alcuni ufficiali dell’esercito italiano e da una schiera di giovani proletari della zona. Un personaggio realmente esistito, autore addirittura di un’autobiografia (The consul, 1994) tradotta in italiano. Di lui, così come di Maria Keller, altra grande protagonista del romanzo, lo scrittore sente parlare per la prima volta nel luglio 2020 in occasione di un’iniziativa organizzata dall’Anpi sull’isola Maggiore del Lago Trasimeno. «Della guerra di liberazione a Pietralunga e della Resistenza sui monti dell’Appennino umbro-marchigiano conoscevo poco. Mi hanno incuriosito i nomi di questi due personaggi, evocati in maniera per me insolita», racconta Dozzini, giornalista, scrittore e fondatore del Festival di letteratura ispanoamericana Encuentro. Un pranzo con un amico esperto dell’argomento per saperne di più, il bisogno di indagare, qualche segno del destino. «Quando ho capito che il libro poteva esserci era l’inverno 2020-21: ho scritto questo romanzo anche un po’ per evadere dalla paranoia della pandemia», spiega, «da un presente che non mi piaceva per niente, ed entrare in una dimensione alternativa».
Paradossalmente l’alternativa al presente paranoico che l’autore si costruisce è una dimensione di guerra: «Una guerra, quella di liberazione, che non potevo che raccontare come necessaria, in quel momento, ma che rimane un’aberrazione, un esercizio di idiozia suprema dell’essere umano». Non poteva prevedere, Dozzini, che quel filtro bellico progettato con tanta maestria e impiantato su tutte le 350 pagine di narrazione senza ordigni ma sottoforma di «un’aria nevrotica e oscura che ricade su tutte le cose» si sarebbe ben presto abbattuto anche su quelle della sua quotidianità. «Ho concluso la prima stesura del romanzo prima dell’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo. La storia – spiega – non è dunque una reazione alla narrazione sulla guerra che ci stanno facendo da un anno e mezzo a questa parte».
D’altronde alla guerra le carte non si possono fare, come chiarisce alle sue compagne di prigionia Maria Keller. È lei che, a racconto inoltrato, entra in scena agitando l’animo dei combattenti, questa étoile dall’eleganza naturale, poliglotta, nata a Budapest da una famiglia aristocratica che coi suoi passi di tip-tap aveva incantato il Mediterraneo da Istanbul a Marsiglia prima di finire in carcere a Perugia, nella primavera del 1940, con l’accusa di spionaggio al soldo dei francesi.
Al personaggio della Keller, «caleidoscopio rotto in cui era impossibile individuare l’immagine da cui tutto, quella serie interminabile di immagini capovolte, aveva principio», Giovanni Dozzini rivela di essere particolarmente affezionato: «Maria Keller era una cartomante, e questo aspetto mi ha affascinato da subito, permettendomi di costruirla come un personaggio molto oscuro, che incarna perfettamente l’anima decadente dell’Europa, del vecchio continente che esce sconfitto dalla Seconda guerra mondiale». La ballerina ungherese e Orebaugh nacquero lo stesso giorno, il 19 marzo. Su questa fatalità, «un segno degli dèi della letteratura, che mi stavano dicendo che stavo battendo la strada giusta», lo scrittore calca la mano, dando vita a due gemelli diversi in una perenne e incompiuta tensione l’uno verso l’altra: lei ammaliatrice, lui concreto; lei malinconica, lui vincente; lei in cerca di segni, lui di cieli senza nuvole che gli permettano di concludere la spedizione a cui si è prestato, quella di mettersi in collegamento con il comando alleato oltre la linea del fronte, e di far valere così il proprio rango e la propria parola. «Orebaugh rappresenta la scintilla d’inizio del secolo americano: è pragmatico e positivo, fa quasi fatica a gestire il magnetismo oscuro della Keller. Ma, soprattutto, è un vincente: e infatti – continua Dozzini – se c’è qualcuno che l’ha vinta davvero, la Seconda guerra mondiale, sono gli Stati Uniti d’America».

Né Maria Keller né Orebaugh sanno come questa storia andrà a finire. E non lo sanno neanche Bonuccio Bonucci, né il folletto volante Mefisto, né don Marino, né Ruggero, il contadino «libero e gregario» che offre ospitalità al console nella sua modesta casa in mezzo agli Appennini. Facendosi guidare dalle sue stelle polari, «antifascismo, pacifismo e solidarismo», Giovanni Dozzini batte i sentieri di montagna oltre i casolari abbandonati, abbassa le luci alla sua Perugia, prende la realtà delle vicende per farne materiale utile alla finzione, «ercando di fingere senza mentire». Ne viene fuori un vero e proprio romanzo di avventura, non tanto per la cornice dentro cui inserisce le vicende che racconta -quest’avventura storica durata venti mesi tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945- quanto piuttosto perché riesce, per usare le parole dello storico Santo Peli, autore del saggio La Resistenza in Italia (Einaudi, 2004), nell’impresa di rinunciare al senno di poi, avvicinandoci al senso di sfida, di dramma, talvolta anche di tragedia che caratterizza quest’esperienza storica e che i protagonisti vivono collettivamente ma anche, e forse soprattutto, nel suo romanzo, individualmente. Progetti e stati d’animo caratterizzati da momenti di azione e di contrazione, di forza e debolezza, di illusione e sconforto. Da picchi e avvallamenti, come quelli del Catria, del Cucco e del Nerone, le montagne che facevano da guardia ai partigiani.





