Superare la distruttività del conflitto con un modello di cooperazione e di convivenza. Ecco l'analisi dello psicologo sociale Francesco Paolo Colucci che ha studiato a lungo le scuole arabo-israeliane e ha tenuto dei corsi nella Striscia di Gaza

Viene qui espresso un punto di vista esterno, dal momento che chi scrive non vive in Israele anche se per anni vi ha condotto ricerche nelle scuole arabo israeliane, oltre che sui Drusi del Carmelo e del Golan e ha tenuto a Gaza corsi di formazione rivolti alle infermiere e agli infermieri psichiatrici, alle insegnanti e agli insegnanti. Un punto di vista che può essere utile in quanto dall’esterno si può vedere ciò che chi è all’interno non vede o vede in modo diverso; come si evidenzia quando dall’esterno appunto si interviene in istituzioni come le scuole o gli ospedali.
Il conflitto arabo israeliano, che persiste dal 1948, aggravandosi e degenerando, emerge a tratti con drammaticità tale da conquistare i primi posti nell’agenda dei mass media occidentali, venendo poi dimenticato quando lo “spettacolo”, ad esempio dei bombardamenti su Gaza e dei missili lanciati da Gaza, finisce. Dimenticato, anche se ci coinvolge per le sue possibili conseguenze e, prima, per le sue cause che affondano le loro radici nella vecchia Europa; e sopra tutto in quanto l’opinione pubblica diffusa nei Paesi democratici può influenzare le scelte politiche dei governi.
Opinione pubblica, o sentire comune, sul conflitto arabo israeliano che, come sta drammaticamente emergendo in questi giorni, può veicolare il mostro antico e mai scomparso dell’antisemitismo; mascherandosi talora con un sentire, indiscriminatamente negativo verso lo Stato di Israele, che vorrebbe essere di Sinistra, pur contradicendo i principi e i valori più autentici della Sinistra, a partire dalla comprensione storica dei fatti e dall’opposizione a discriminazioni che possono portare a esiti inaccettabili, come è già successo.

Gli scenari di questo conflitto sono diversi anche se tra loro interdipendenti. Lo scenario più ampio, globale, coinvolge i rapporti tra Israele, con il suo protettore statunitense, e i Paesi islamici. A livello regionale vi è la tensione tra Israele e i Territori palestinesi della Cisgiordania e di Gaza – Territori, lo stesso termine usato per le riserve indiane nel Nord America. Infine, il più complicato conflitto interno – anch’esso continuo, latente, con momenti di emergenza o “spettacolari” – con i cittadini considerati di secondo ordine e trattati come tali dallo Stato israeliano: gli “arabo israeliani”, come devono essere chiamati i palestinesi che vivono nei confini dello Stato per negare la loro identità e separarli, con le parole che possono essere più divisive dei muri, dagli altri palestinesi che vivono nei Territori. Conflitto interno con un “gruppo minoritario o svantaggiato”, secondo la definizione di Kurt Lewin ( “I gruppi minoritari o svantaggiati” in La teoria, la ricerca, l’intervento, Bologna, il Mulino, 2005), “subordinato” come lo avrebbe definito Gramsci. Un gruppo non omogeneo di cittadini di secondo, terzo ordine o quasi inesistenti: ne fanno parte, oltre che gli “arabo israeliani” islamici e (anche se sempre meno) cristiani; i beduini, in grande maggioranza chiusi in un orgoglioso isolazionismo, cacciati dal deserto del Neghev dall’avanzata di coltivazioni esogene, costretti a una residenzialità coatta e degradata, e, oltre a questi, gruppi etnici minori deportati in Palestina dall’Africa e dal Caucaso ai tempi dell’Impero Ottomano; e non vanno dimenticati i Drusi del Golan che dal 1967, quando le loro colline furono occupate dall’esercito israeliano, vivono in un indefinito limbo identitario e istituzionale: arabi ma non islamici, non palestinesi, non siriani anche se molti tra loro si sentono tali, non cittadini dello Stato che li ha inglobati, minacciati, come i palestinesi della Cisgiordania anche se ignorati dai mass media, da un numero programmaticamente crescente di insediamenti di coloni israeliani; separati non solo geograficamente dai Drusi del Monte Carmelo che al contrario si sono integrati nello Stato israeliano facendo, unici tra gli arabi, il servizio militare e diversi tra loro la carriera militare.

Gaza City dopo i bombardamenti israeliani (foto ActionAid)

Per tentare di comprendere questo conflitto nel suo complesso bisognerebbe tener presente che la sua causa prima è di tipo economico, ovvero rinvia alla spartizione di risorse: all’inizio la terra e l’acqua, attualmente in primo luogo le riserve di gas e petrolio nel Mediterraneo, di fronte a Gaza e al confine con il Libano. Una conferma della teoria sul “conflitto realistico”, secondo C. Wood Sherif e M. Sherif: i conflitti tra i gruppi sociali di qualsiasi tipo e dimensione sono originati dalla spartizione di risorse, ovvero da motivi economici; partendo da questa base strutturale assumono aspetti etnici, culturali, religiosi che finiscono con l’apparire, e in parte effettivamente diventano, prevalenti. Infatti, il conflitto arabo israeliano viene rappresentato anche, se non prevalentemente, come uno scontro tra il Medio Oriente islamico e l’Occidente giudaico cristiano.

Nello stesso tempo, per comprendere le modalità del conflitto bisogna ricordare che i palestinesi e gli “arabo israeliani” sono vittime di altre vittime. La storia e la memoria collettiva sono di lunga durata e i comportamenti dello Stato di Israele e degli israeliani possono essere spiegati dalla storia del popolo ebraico e più immediatamente dalla Shoah. Se chiedete agli israeliani perché non si preoccupino degli effetti che possono avere all’estero sulla opinione pubblica, sui leader e sui governi occidentali le politiche discriminatorie e indiscriminatamente aggressive di Israele, a esempio i bombardamenti su Gaza con l’uccisione di persone, di bambini e bambine che nulla hanno a che fare con Hamas e che anzi sono esse stesse vittime di Hamas, in diversi vi risponderanno che non capiscono perché dovrebbero preoccuparsi di quello che pensano “gli altri all’estero” dal momento che “all’estero”, negli Stati Uniti e in Europa, ben si sapeva cosa succedeva in Germania e in Italia negli anni Trenta del secolo scorso, ben si sapeva dei campi di concentramento e di come funzionavano – le foto aeree esistevano anche allora – e nessuno fece nulla, né i civilissimi cittadini dell’Occidente, né il Papa, né Roosevelt, il presidente democratico degli Stati Uniti; i quali ultimi anzi impedirono l’arrivo di ebrei dall’Europa orientale. Aggressività bellica di Israele che può essere spiegata anche come una reazione alla accusa mossa agli ebrei anche da altri ebrei di aver subito le persecuzioni comportandosi da codardi. Infatti la codardia era un tratto tradizionale dello stereotipo dell’ebreo introiettato dagli stessi israeliti e valorizzato dai nazisti: una colpevolizzazione delle vittime paradossale quanto abituale oltre che generica e storicamente errata.
Più in generale si ripete in Israele un noto processo psichico: le vittime tendono a far subire agli altri quello che loro hanno subito. Chi è stato educato subendo punizioni corporali potrà essere portato a infliggere punizioni corporali a chi può appena può (v. Philippe Ariès, Padri e figli nell’Europa Medioevale e moderna, Laterza). Questo processo tendenziale anche se non deterministico può riguardare le collettività come i singoli individui. Di fatto Gaza è un ghetto, i campi profughi in Cisgiordania sono dei ghetti, i beduini, sono costretti a vivere in dei ghetti.

Tuttavia, nella situazione conflittuale interna allo Stato di Israele emergono delle contraddizioni sulle quali è opportuno riflettere. Contraddizioni che evidenziano la falsità di qualsiasi rappresentazione manichea che veda nello Stato di Israele solo il male.
Da una parte i cittadini di secondo e terzo ordine, i diversi gruppi “minoritari” in diversa misura “svantaggiati”, continuano a essere discriminati in un sistema in buona misura di apartheid e di capillare controllo poliziesco, con episodi di ribellione duramente repressi.
Dall’altra bisogna riconoscere alcuni fatti. In primo luogo che Israele in Medio Oriente è l’unica democrazia di tipo occidentale – ora minacciata dal governo Netanyahu – con tutti i limiti e i difetti di queste democrazie, a partire dall’essere tutt’altro che democratiche – rispettose dei diritti del demos, a iniziare dal diritto alla vita – non solo verso i nemici esterni ma verso quanti al loro interno vengono considerati esterni o estranei, “altri”: gli afroamericani negli Stati Uniti, gli “arabo israeliani”, i Drusi del Golan e gli altri gruppi “minoritari” in Israele. Nello stesso tempo va riconosciuto che nonostante i loro limiti le democrazie di tipo occidentale possono essere considerate la miglior forma di governo conosciuta; e non si tratta di uno stereotipo o di un luogo comune in quanto i regimi democratici hanno ricadute positive per tutti, anche per i cittadini di secondo ordine, nonostante il persistere di discriminazioni nei loro confronti. Questo è dimostrato in primo luogo dai sistemi giudiziari che nelle democrazie offrono comunque maggiori garanzie. Un arabo israeliano, per una causa penale o anche civile, preferirebbe un tribunale israeliano o egiziano, iraniano, saudita…? L’opposizione di una ampia maggioranza degli israeliani al governo Netanyahu in difesa dell’autonomia del loro sistema giudiziario segnala che la rilevanza di quest’ultimo è sentita e quindi che è radicato un sentire democratico, e la volontà di difendere la democrazia.
Inoltre, nel caso specifico di Israele, bisogna riconoscere l’eccellenza della sanità pubblica e degli ospedali; e di questa usufruiscono anche gli arabo israeliani. Negli ospedali, dai medici, prevalentemente i pazienti vengono tutti trattati come tali indipendentemente dalla etnia. Capita infatti che i familiari, i genitori se si tratta di bambini, si trovino a condividere il dolore e la speranza superando separazioni e conflittualità.

Popolazione di Gaza City dopo i bombardamenti (foto ActionAid)

Il sistema scolastico statale è particolarmente emblematico delle contraddizioni alle quali qui si fa riferimento. Le scuole arabo israeliane separate dalle scuole israeliane – separazione non solo accettata ma voluta dalla grande maggioranza degli arabo israeliani che intendono così difendere la loro cultura e opporsi alla assimilazione – sono sottoposte al controllo delle autorità ministeriali israeliane anche per quanto riguarda temi sensibili come i programmi di storia e letteratura. Nello stesso tempo, il rilevante investimento statale nell’istruzione (costantemente superiore a quello di Paesi come il Giappone, la Germania, il Regno Unito, gli Usa, come evidenziato dalle statistiche Ocse) ha portato, a partire già dal 1948, a uno sviluppo esponenziale della scolarizzazione della popolazione araba, dai primi livelli alle scuole superiori. Pur nel persistere di diseguaglianze nella distribuzione delle risorse economiche, e di elevati tassi di dispersione scolastica, molti arabo israeliani completano il ciclo scolastico; e questo permette a diversi di conseguire lauree in Medicina, Ingegneria, Psicologia…, anche se quasi sempre in Università europee o di Paesi arabi, essendo difficile per un arabo israeliano superare la selezione per essere ammesso a una Università israeliana. Quello che è più importante, la scolarizzazione femminile, assente durante la lunga dominazione ottomana e il successivo Mandato britannico (dal 1920 al 1948), ha raggiunto gli stessi livelli della scolarizzazione maschile: un progresso rilevante per l’intera società palestinese o “arabo israeliana” per l’inserimento lavorativo e sociale delle donne, e in quanto dalle madri dipende l’educazione delle figlie e dei figli negli anni decisivi della prima infanzia. La diffusione della scolarizzazione, più in generale e con maggiore rilevanza la socializzazione in un Paese di cultura occidentale e che offre modelli culturali occidentali, porta le adolescenti e gli adolescenti arabo israeliani ad ispirarsi e ad aspirare a tali modelli, a cominciare dall’utilizzo degli attuali mezzi e modalità di comunicazione. Questo può essere considerato un sintomo e un fattore potenzialmente positivi, ma emergono anche a tale riguardo degli aspetti problematici.

Insegnanti, presidi, testimoni privilegiati intervistati nel corso di una ricerca condotta dal 2009 al 2019 nelle scuole arabo israeliane (Colucci, Said e Dakduki) definiscono studenti e studentesse come “la generazione muta”, ovvero la generazione che non comunica – con loro, con gli adulti. Tale difficoltà di comunicazione intergenerazionale, ricorrente in tutte le società, assume nella società arabo israeliana una accentuata drammaticità e caratteri peculiari. La non comunicazione intergenerazionale che porta a questa definizione stereotipica di “generazione muta” è causata e comunque aggravata dal fatto che l’ampia maggioranza dei genitori e parte degli stessi insegnanti arabo israeliani non conoscono, non praticano e vivono con un misto di estraneità e diffidenza i nuovi mezzi di comunicazione, considerati espressione e veicolo di trasmissione della cultura occidentale.

La contradizione che qui emerge è evidenziata dal fatto che alcuni appartenenti a questa “generazione muta” sono stati e continuano a essere protagonisti di ribellioni più o meno violente contro lo Stato di Israele. È sensato spiegare questo come la manifestazione del noto rapporto causale tra frustrazione e aggressività che può portare i giovani arabo israeliani come quelli della Cisgiordania e di Gaza, come i giovani arabi, anche di seconda e di terza generazione, delle periferie europee frustrati dal fallimento delle loro aspirazioni occidentalizzanti a reagire con comportamenti aggressivi. L’assalto ai ragazzi del Bataclan ed ora la violenza esaltata ed esultante dei giovani gazawi di Hamas che hanno assaltato i loro coetanei e le loro coetanee che partecipavano al rave party o festa musicale al confine possono essere la tragica conferma dell’ipotesi qui avanzata. È cruciale allora cercare di capire da cosa può dipendere questo fallimento, ovvero la persistente mancata assimilazione o integrazione di tanti giovani arabi; cercare di capire per cercare di risolvere. Tale riflessione può essere utile e arrivare a un qualche risultato se si supera l’abituale manicheismo che attribuisce la responsabilità del fallimento solo, esclusivamente e genericamente agli occidentali o all’Occidente, in questo caso solo ed esclusivamente agli israeliani e allo Stato di Israele. Anche se quest’ultimo ha precise e gravi responsabilità: la sua politica di questi ultimi anni e di questi tempi favorevole agli integralisti o ortodossi più retrivi, come i coloni della Cisgiordania, la tendenza a trasformare Israele da Stato laico, come era nelle intenzioni dei suoi fondatori, in Stato confessionale non può che essere respingente in primo luogo verso i giovani ovvero, se si vuol usare questa espressione, verso la “generazione muta”.

Per comprendere la mancata integrazione, e la più generale e continua situazione conflittuale, bisogna inoltre tener conto delle persistenti differenze culturali senza per questo evocare, o invocare, guerre di civiltà. Una manifestazione, o sintomo, di tali differenze culturali, attualmente rilevante, rinvia al modo di percepire la violenza. Agli occhi occidentali lo sgozzamento con un tradizionale coltello fa molta più impressione di un bombardamento “chirurgico” e comunque tecnologico, specie se tale bombardamento colpisce l’altro. Gli arabi, i palestinesi vivono i bombardamenti che seppelliscono decine di vittime come ben più gravi e terrorizzanti dei singoli attentati per quanto feroci. Si alimenta così il circolo vizioso delle recriminazioni reciproche, in un urlarsi tra sordi.
Tornando a riflettere sul conflitto interno allo Stato di Israele e sulle sue contradizioni si deve osservare che le condizioni di vita degli arabo israeliani in buona misura migliori se confrontate a quelle, oltre che dei palestinesi dei Territori, degli arabi del Medio Oriente e del Maghreb, sono pagate da sofferenze passate e presenti, a partire dal doversi sentire stranieri indesiderati nella loro patria. Ma sono tutt’altro che liberi dalla sofferenza i cittadini di primo ordine o di serie A dello Stato di Israele che sentono di vivere in una condizione continua di tensione e di precarietà, sentendosi anche essi continuamente minacciati.
Arafat osservava che la popolazione ebraica che vive in Israele è costituita da gruppi etnici tra loro molto diversi; e si chiedeva cosa potesse esserci in comune, “a parte la religione”, ad esempio tra un ebreo venuto dal Nord Africa e uno venuto dalla Polonia, concludendo che “solo la paura può riunirli”. A tali diversi gruppi etnici si sono aggiunti i russi, prevalentemente di tradizione cristiano ortodossa, che hanno abbandonato l’ex Unione Sovietica. In Galilea le insegne dei negozi sono in ebraico e in cirillico.

Come sempre e da sempre per rendere coeso un gruppo di qualsiasi entità, da una famiglia a una nazione, il nemico se non c’è va creato. In particolare nel caso di Israele, per mantenere coesa una popolazione tanto differenziata sono necessari la paura del nemico e uno stato continuo di belligeranza; paura che non necessita di essere creata o ingigantita, come dimostrano gli eventi di questo ottobre 2023. Se, come riteneva Arafat, non si comprende cosa possa esserci in comune tra gli Israeliani “a parte la religione”, si deve ricordare che nel caso degli israeliti, e degli israeliani, la religione è un legame primario che si connette in modo paradigmatico al mito, alla cultura, alla tradizione, alla memoria collettiva e individuale, alle identità collettiva e individuale. Un legame che da due millenni pervade profondamente e lega un popolo disperso per il mondo, tutti, dai laici agli ortodossi, dagli aschenaziti polacchi ai sefarditi del Nord Africa. Nello stesso tempo tale religio, questo forte legame, aggrava e alimenta il conflitto, contrapponendosi alle altre due grandi religioni monoteistiche del Libro: l’islamica in primo luogo e, con modalità diverse, la cristiana: «Tantum religio potuit suadere malorum» (Lucrezio, De Rerum Natura).
Se non può durare indefinitamente un legame fondato sulla paura, con una tensione continua, questo conflitto arabo israeliano non può che abortire in un disastro – quale può essere l’implosione e la fine dello Stato di Israele – che coinvolgerebbe anche gli arabo israeliani e i palestinesi e colpirebbe più duramente, come sempre accade, i più deboli: i tanti israeliani di origine nord africana, yemenita, etiope; e oltre a questi, i gruppi marginali come i Drusi del Carmelo, una minoranza religiosa, considerata collaborazionista dalla maggioranza degli Arabi. Gli israeliani privilegiati, gli uomini d’affari, i tecnocrati e i professori universitari, prevalentemente appartenenti a famiglie di origine europea, molti con una doppia cittadinanza, non faticherebbero ad acquistare un biglietto aereo per gli Stati Uniti o per l’Europa.

Gli abitanti di Gaza dopo un bombardamento israeliano (foto ActionAid)

Solo una risoluzione del conflitto può evitare il disastro. Credere che questo sia possibile e agire a tal fine può aprire la prospettiva di un “futuro psicologico” rendendo la situazione presente sopportabile per tutti quelli che si trovano a viverla: come spiegava Lewin, solo la prospettiva di una patria futura in Palestina poteva rendere sopportabile la vita degli israeliti nella Germania nazista.
Risolvere il conflitto non significa, non può e non deve significare eliminare il conflitto. I conflitti sociali sono ineliminabili e anzi necessari in primo luogo perché servono a difendere i più deboli, o meglio a liberare i gruppi “subordinati” (Gramsci) o “minoritari” (Lewin) dalla loro condizione. Risolvere i conflitti significa cercare di ricondurli a quel polemos che è la natura stessa della politica, eliminando la loro distruttività e auto distruttività generata e alimentata dalla irrazionalità e dai suoi fantasmi. A tal fine bisogna cercare soluzioni politiche realistiche. A partire dal rifiuto dell’idea, che talora vorrebbe essere di Sinistra e che invece è solamente sinistra, che ritiene come unica soluzione possibile e auspicabile la fine dello Stato di Israele. Ci si deve inoltre chiedere se è realistica la soluzione dei due Stati o se questa non rischierebbe di perpetuare e aggravare quanto succede a Gaza e in Cisgiordania. Osservando quanto succede questi giorni ci si deve chiedere se è realistica e sensata la scelta deli Stati Uniti di puntare su Abu Mazel un non leader squalificato e disprezzato; e di non imporre invece all’altrettanto squalificato governo israeliano la liberazione di Marwan Barghuti, l’unico leader palestinese in grado di guidare l’opposizione all’egemonia di Hamas

Ancor prima, sempre osservando quanto sta succedendo, è urgente un cambiamento di paradigma della politica israeliana che non deve continuare a confondere i nemici (Hamas, Hezbolalh) con le vittime di questi stessi nemici: i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania. I bombardamenti indiscriminati su Gaza, l’appoggio insensato ai coloni della Cisgiordania, un gruppo marginale ed emarginato, si rivolgono e si rivolgeranno contro Israele, che rischia di apparire in questi ultimi tempi e in questi giorni, non un “baluardo della democrazia”, ma uno Stato terrorista insensato e incapace. Incomprensibilmente incapace. Infatti, ci si può chiedere se uno Stato tecnologicamente all’avanguardia, in primo luogo per quanto riguarda la sicurezza e gli armamenti non possa usare altre tecniche per “stanare i terroristi”; che non siano bombardamenti a tappeto come nella guerra di Spagna (Guernica) e nella Seconda guerra mondiale.

Ma la precondizione fondamentale, dalla quale partire, per la risoluzione del conflitto richiede il superamento – tra le parti coinvolte nel conflitto e tra quanti lo osservano dall’esterno – di una rappresentazione manichea, che fa vedere tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra, e non fa vedere le differenze interne ai gruppi contrapposti. Sarebbe così un errore rappresentarsi tutti gli israeliani – se non tutti gli israeliti – come sostenitori e spettatori entusiasti dei bombardamenti su Gaza e del proliferare degli insediamenti in Cisgiordania; non vedendo che tra gli israeliani vi sono gruppi con visioni contrapposte e significative divisioni politiche (v. Left del 21 maggio 2021). Il fatto che quelli che credono in una convivenza costruttiva con i palestinesi possano essere una minoranza non diminuisce affatto la loro importanza dal momento che nella storia gli attori dei cambiamenti più radicali sono sempre state le “minoranze attive”, come sostiene Moscovici. Dall’altra parte i palestinesi e ancor più le palestinesi di Gaza non sono tutte/i integraliste/i, convinte/i sostenitori di Hamas; che se non ha applicato la Sharia come i suoi sostenitori e alleati iraniani – non potendolo fare in quanto il contesto nel quale opera e domina è diverso da quello dell’Iran – ha causato una regressione delle condizioni di vita in particolare delle donne a iniziare dagli obblighi relativi al vestire. In ogni caso, di fatto gran parte dei gazawi non sono e non possono essere sostenitori di Hamas, se non altro per motivi anagrafici avendo meno di 15 anni.

È essenziale invece comprendere che la cooperazione, come fanno intravedere le contraddizioni sopra evidenziate, è per tutti più conveniente del conflitto nel rapporto costi/benefici, vantaggi/svantaggi intesi non solo in senso economico: si pensi alle sofferenze fisiche e psicologiche. Essenziale ma non facile come dimostra la storia della nostra specie che ha come costante sin dai primordi la prevalenza del conflitto tra gruppi per l’accaparramento delle risorse; non facile ma possibile. Bisogna credere nella possibilità che la ragione, grazie all’evoluzione della nostra specie, finisca col prevalere sui fanatismi e sulla aggressività, che la consapevolezza del bene comune prevalga sugli egoismi di corto respiro
Come si è prima fatto intravedere, in Israele si trovano a convivere diversi gruppi etnici, un fazzoletto di terra paragonabile per tale molteplice diversità agli Stati Uniti d’America. Questo significa che Israele potrebbe diventare un modello pionieristico di convivenza multietnica: un unico Stato con cittadini diversi e di uguale dignità, con diritti e doveri uguali (v. Russo Spena, left.it del 30 ottobre 2023). Uno Stato in grado, grazie alla sua superiorità democratica, di esercitare con le sue istituzioni a partire dalla scuola una “egemonia culturale” che contrasti gli opposti estremismi; ad esempi l’estremismo dei coloni della Cisgiordania che non possono essere eleminati o deportati ma possono essere cambiati.

Si tratta comunque di non accettare la conflittualità distruttiva come un destino inevitabile; e di comprendere che quelle che sembrano utopie possono invece essere luoghi non ideali, con molteplici difetti e limiti, anche conflittuali, ma possibili.

L’autore: Francesco Paolo Colucci, già professore ordinario di Psicologia sociale, Università degli Studi di Milano Bicocca, Dipartimento di Psicologia, è autore, tra l’altro, insieme a M.Said e J.Dakduki di “Una esperienza di ricerca-azione volta a ridurre la dispersione scolastica nelle scuole arabo israeliane”, Psicologia di comunità, 1-2018

In apertura: Gaza City dopo i bombardamenti israeliani (foto ActionAid)