«Non desideriamo più la relazione con gli altri, ci interessano solo le cose», denuncia il poeta e giurista autore de "Il silenzio del noi", un pamphlet in cui parla anche del silenzio della politica

A chi si è arreso a una politica come forma di mera amministrazione tecnica dell’esistente, spesso connotata da una dose copiosa di crudeltà quale esito indiscutibile di un individualismo volto soltanto all’autoconservazione, Niccolò Nisivoccia ha indirizzato Il silenzio del noi (Mimesis 2023, pp. 90, euro 18). Pamphlet a cui, peraltro, è stata anche intitolata l’ultima edizione del “Piccolo Festival della Fiducia” di Pisa. Il poeta e giurista ha declinato il silenzio nelle sue implicazioni politiche prima ancora che esistenziali: dalla frantumazione del vivere comune all’essere rinchiusi dentro le rispettive monadi, dal non essere più capaci di sporgersi fuori e verso gli altri alla conseguente progressiva scomparsa di una dimensione sociale e collettiva della res publica. Tuttavia la consapevolezza e l’umiltà di rivolgersi di continuo a chi per anni ha studiato e pubblicato a riguardo, basti pensare a Christopher Lasch e Tony Judt, non sono venute meno. Nisivoccia, ha lasciato un seme nelle mani dei lettori, partendo dal presupposto che per contribuire a un discorso corale, per tenerlo vivo e presente, ciascuno possa e debba fare la propria parte con la propria capacità critica. Ma perché tensione politica e indagine esistenziale dovrebbero sempre coincidere?

Perché la politica non dovrebbe occuparsi di altro che delle nostre esistenze. E sia il “noi” sia il “silenzio” sono due facce di una stessa medaglia: il “noi” come soggetto, in primo luogo, nel senso di un punto di vista silente, scomparso completamente dai nostri orizzonti, dai nostri pensieri, dal nostro lessico. È stato annientato e sostituito da un io che definire individualista sarebbe riduttivo: si tratta di un io onnipresente, oramai dispotico, quasi tirannico. Poi il “noi” come oggetto, in secondo luogo, quale elemento costitutivo del silenzio stesso.

Però rifugge l’accezione dell’isolamento e dell’incomunicabilità, auspicando quella del dialogo e della relazione interpersonale.

Non ho ritratto il silenzio desertico di chi rifiuta la società, ma l’esatto opposto: quello di chi vive dentro il mondo, in mezzo alle persone, accettando i limiti del caos; è un silenzio dialogante e relazionale. I versi del poeta gradese Biagio Marin lo definiscono con una negazione semantica, con “la parola non detta è difetto di vita”, “non fa nodo”. Che non significa pensare che il silenzio sia sbagliato, né considerarlo avvilente; bensì uno spazio intangibile in cui le parole degli altri, una volta ricevute, possano trasformarsi in parole nuove. E possano “fare nodo”, generando una reciprocità.

Le sue intenzioni cominciano a manifestarsi con una pagina di narrativa, più che di saggistica: con un bambino che tiene la mano del padre, non a caso silenzioso, negli anni della morte di Moro. È un’immagine che appartiene alla sua generazione, di chi è nato tra gli anni Sessanta e i primi Settanta. Che cosa rappresenta?

Ho aperto così il libro perché credo che siano gli anni in cui il “noi” ha iniziato a scomparire. Le ideologie esistevano ancora e, al netto delle degenerazioni che hanno provocato, si parlava ancora in nome di un ideale più grande dell’io che lo esprimeva. I padri parlavano molto meno coi loro figli rispetto a quelli di oggi; parlavano attraverso i loro comportamenti più che attraverso insegnamenti espliciti. Eppure la società si costituiva su un confronto continuo, con luoghi pubblici deputati a un dibattito consapevole.

Se l’invadenza dell’io ha riempito un vuoto di senso dilagante, lei sembra quasi rimpiangere le ideologie alla maniera di Nanni Moretti ne Il sol dell’avvenire Beh, ne Il sol dell’avvenire potrebbe essere intesa una certa nostalgia nei confronti delle ideologie, ma anche in quel caso la nostalgia riguarda un’epoca, o tutt’al più ciò che le ideologie avrebbero potuto dare di costruttivo se la storia fosse andata diversamente. Addirittura Moretti arriva a retrodatare la sua nostalgia, la fa risalire non ai Settanta, ma addirittura al ’56, all’invasione dell’Ungheria da parte dei carri armati sovietici: per lui è quello il momento del crollo delle illusioni, dunque della disillusione e della perdita dell’innocenza. Il momento in cui il Pci non aveva saputo o voluto prendere posizione contro l’invasione.

In che senso lo sfrenato individualismo odierno, il nostro solipsismo, costituirebbe in sé un’ideologia?

Nella misura in cui può essere interpretato, a sua volta, come una deriva estremistica del discorso capitalista. E mi riferisco a un tema ripreso di recente anche da Manconi e Lettieri in Poliziotto-Sessantotto. Violenza e democrazia (Il Saggiatore, 2023): sono pagine che rendono esaustivamente l’affermazione del discorso capitalista come liberazione di un soggetto senza limiti, dominato da un’avidità di godimento fine a sé stessa, per effetto della quale finanche i concetti di amore e di desiderio tendono a sfumare e a scomparire. Non desideriamo più la relazione con gli altri, ci interessano solo le cose, in quanto necessarie per soddisfare una smania che si brucia giusto nell’attimo in cui si riesce a possederle.

Forse non ha torto chi sostiene che non esistano più memorie collettive, tantomeno la memoria tout-court, e che il ricordo del passato si sia dissolto, seppellito da un continuo presente. Tuttavia secondo lei, che è avvocato nonché membro del Consiglio di presidenza di Libertà e Giustizia, perché ha ceduto la tenuta della legge?

La produzione legislativa degli ultimi anni è stata caratterizzata dalla sovrabbondanza e dall’incontenibilità. Vengono emanate leggi in continuazione: c’è una legge per tutto e per tutti. E ciascuno ne reclama una per sé, poiché ciascuno di noi pretende il riconoscimento di un proprio diritto. Si tratta di una pulsione narcisista. In Arcipelago N. (Einaudi, 2021) di Vittorio Lingiardi il narcisista è anche chi pretende che sia accolta ogni propria istanza come se fosse giusta a prescindere; chi pensa che il proprio io debba coincidere con quello globale; chi nega la complessità del reale semplificandolo a propria misura e somiglianza. Ed è l’atteggiamento che spesso tradiamo, nelle nostre misere aspettative nei confronti della legge. Nella foto: Niccolò Nisivoccia al Festival della fiducia a Pisa