La proposta del ministro dell’Istruzione a proposito dell’educazione affettiva a scuola ha suscitato molte discussioni e critiche. Può essere un’importante occasione di crescita ma, se pensata in maniera astratta e coercitiva, non può che fallire

Educazione può essere una parola bellissima se la si intende nell’accezione più legata alla sua origine etimologica, ovvero quando indica quell’azione o serie di azioni mirate a creare opportunità, rapporti, contesti umani e di apprendimento adatti a far sì che le potenzialità di ogni ragazzo ed ogni ragazza, di ogni bambino e di ogni bambina possano emergere e trasformarsi. Può essere, al contrario, un parola detestabile, da rifiutare, se la si intende come sinonimo di addestramento, come azione normalizzante mirata all’adeguamento di un comportamento ad un modello imposto dall’esterno basato su un sistema di pensiero o un costrutto culturale.

Il filosofo ed esponente della pedagogia progressista John Dewey, in Educazione e società scrive: «la storia della teoria dell’educazione è caratterizzata dall’opposizione fra l’idea che l’educazione sia sviluppo dal di dentro o che sia sviluppo dal di fuori». Che ci fosse un duplice significato era quindi già evidente nel 1938, quando il saggio è stato scritto e ciò che distingue le due versioni è l’idea che si ha dei bambini e dei ragazzi e di come funzioni la loro mente.

I bambini si possono infatti considerare «della stessa natura degli adulti», come diceva Freinet, cioè differenti solo nel grado di crescita dai più grandi, oppure menti da forgiare e, possibilmente, da contenere, se pensiamo che l’educazione sia sviluppo dal di fuori. La tradizione della scuola democratica e della pedagogia attiva che prende le mosse dalle teorie di Dewey e dalle proposte di Freinet proponendo un’idea di educazione come occasione di crescita di tutte le individualità, in Italia è stata principalmente rappresentata, fin dal 1951, dal Movimento di cooperazione educativa ed è tutt’ora presente in molte scuole pubbliche del nostro Paese vantando negli anni esponenti come Mario Lodi, Bruno Ciari, Nora Giacobini e Franco Lorenzoni. Nonostante ciò l’idea di educazione che prevale nell’immaginario comune è quella più direttiva, quella dello sviluppo dal di fuori, quella che i pedagogisti progressisti, seguaci di Dewey, definiscono “tradizionale”.

Questo articolo è riservato agli abbonati

Per continuare la lettura dell'articolo abbonati alla rivista
Se sei già abbonato effettua il login