Ci vuole un po’ di pazienza prima di arrivare ad apprezzare la poetica che Wim Wenders ha innestato nella sua ultima pellicola, Perfect Days. La prima parte del film sulla vita di Hirayama, un addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo, sembra infatti essere un inno alla coazione a ripetere, condito con un pizzico di “autismo sociale”. Una conseguenza, nell’età adulta, dell’Hikikomori nipponico?
Con pochissimi dialoghi, specialmente nella prima parte dominata da ammicchi, gesti e sguardi, ai quali nella seconda si aggiungerà un crescente flusso di parole, il film snocciola i giorni della settimana lavorativa e privata del nostro interprete, giorni conditi dalle formalità e dai rituali tipici della vita giapponese. Apparentemente con rapporti solo formali e mediati dalle attività quotidiane, quindi senza grande profondità, il protagonista sembra una monade inserita in una routine perfettamente funzionante. Ma i suoi sguardi attenti, i lievi sorrisi compiaciuti sulle piccole cose umane, l’armonia del vivere, l’incantamento per il sussurrare delle fronde dei salici giapponesi, le sue letture non banali, tutto ciò ci fa intuire in lui la presenza di una dimensione umana non povera, non “normale”.
Quindi, lo spettatore che abbia contrastato con successo l’iniziale tentazione di dare un giudizio troppo affrettato al tran tran quotidiano dell’interprete del film, scoprirà una piccola perla di umanità e di resistenza.
Resistenza a cosa? Alla freddezza di una società orientale ormai fin troppo occidentalizzata e alla violenza di rapporti familiari che la maestria del regista ci fa solo intravedere, ma che, si capisce, è alla base delle scelte di vita del protagonista, magistralmente interpretato da Kōji Yakusho che, non a caso, ha ricevuto nel 2023 a Cannes il premio di miglior attore. Splendida e catartica la scena finale, dalla quale si potrebbe pensare che Wenders abbia apprezzato la Marushka Detmers del finale di Diavolo in corpo, guidata dalle sapienti mani della coppia Bellocchio / Fagioli (più il secondo che il primo, come ammise lo stesso maestro piacentino in diverse interviste).
Infine un consiglio. Lo spettatore non avvezzo alle cose della cultura giapponese, cui sia piaciuta la scelta delle canzoni anni Settanta che compongono la colonna sonora (una delle quali ha ispirato il titolo del film), non avrà difficoltà ad attendere lo scorrere dei titoli di coda per vederne riassunto l’elenco. Lo faccia, perché verrà premiato! Al termine troverà infatti in un’espressione della lingua giapponese l‘indicazione che lo aiuterà a meglio comprendere l‘amore del protagonista per i caratteristici aceri del suo Paese, nonché quello che il regista tedesco nutre per il Giappone, Paese ricco di contraddizioni come lo è il mondo stesso, che è fatto di tanti mondi“ (dice il protagonista alla giovane nipote alla ricerca di pulizia interiore), dipende tutto da come comunicano fra di loro.
Chi abbia l’iniziale tentazione di dare un giudizio troppo affrettato al tran tran quotidiano dell’interprete del film, scoprirà una piccola perla di umanità e di resistenza. A cosa? Alla freddezza di una società orientale ormai fin troppo occidentalizzata e alla violenza di rapporti familiari che la maestria del regista ci fa solo intravedere