Sono le cinque di una mattina di novembre. Il mio autobus raggiunge il suo approdo, la stazione di Kyjv, nel profondo della notte. Qualcuno mi accoglie e mi accompagna a un albergo, a pochi passi nel centro di una città che dovrei conoscere bene. Sono passati più di trent’anni da quando, nel 1990, vi avevo messo piede per la prima volta. Ci sono tornato spesso nel corso degli anni, ma questa volta è diverso. Non avrei mai immaginato che quella città sarebbe diventata l’epicentro di una guerra che si combatte accanitamente ormai da due anni.
Per motivi di sicurezza la camera dell’albergo dove vengo alloggiato è senza finestre, ma dal momento che è notte e che non ho quasi chiuso occhio durante il lungo viaggio (l’autobus partito da Varsavia ci ha messo dodici ore), quasi non me ne accorgo. Al risveglio mi rendo conto di trovarmi in una specie di accogliente bunker. La poliziotta a cui avevo presentato il mio passaporto nel cuore della notte, dopo aver verificato la corrispondenza tra la foto e la mia faccia assonnata, mi aveva rivolto un sorriso eloquente e un po’ sorpreso, come a dire: “ma come ti viene in mente di venire qui?”. E in effetti al risveglio nella stanza buia me lo chiedo anche io. Qualcuno bussa e lascia sul tavolo un vassoio con la colazione. Per fortuna da qualche giorno l’allarme antiaereo tace e la situazione sembra relativamente tranquilla, ma comunque, mentre lascio la chiave della mia stanza, una donna alla reception mi mostra la porta del rifugio antiaereo. Comincia così la mia prima giornata di questo breve soggiorno, per fortuna senza particolari incidenti, nella capitale di un paese in guerra.Mi aspettano a un rinomato ristorante al centro a pochi passi dal celebre Majdan e non molto lontano dal mio albergo. Così ho l’occasione di passeggiare per i viali del centro verso quello che è il cuore della città e di tutto il paese. Nell’aria si avverte una strana atmosfera. A pochi metri dal portone dell’albergo si vede ciò che rimane di un edificio colpito l’anno scorso da un missile: una parete e una porta, che appare proprio come una scenografia teatrale, a cui però manca il pavimento (tuttavia è ancora possibile immaginare una scena di vita quotidiana che si è svolta lì fino a pochi istanti prima dell’esplosione). Ciò malgrado le strade sono piene di gente di tutte le età.
Si incontrano anche uomini in mimetica, ma non così come ci si aspetterebbe dalla capitale di un Paese in guerra. La metropolitana, che funziona anche da rifugio antiaereo, è aperta. Anche gli edifici “istituzionali”, i ministeri, il Parlamento (la “Verhovna Rada”), non appaiono danneggiati. Se non fosse per i cartelloni che incoraggiano gli abitanti di Kyjiv ad arruolarsi e che tappezzano i viali della città, sembra quasi che la guerra non ci sia. Evidentemente salvaguardare il centro nevralgico dello Stato è stata una priorità del governo ucraino. Kharkiv, la seconda città ucraina, che si trova a soli quaranta chilometri dal confine con la Federazione Russa, invece è diventata una città spettrale – così almeno mi raccontano amici che provengono da lì e che sono dovuti andare via – con i palazzi del centro ridotti in macerie. Qui invece sono state installate le migliori difese antiaeree di cui l’Ucraina dispone e solo per questo motivo la vita prosegue nei binari di una apparente normalità.
La differenza che noto rispetto ai miei precedenti soggiorni nella capitale ucraina è la prevalenza della lingua ucraina su quella russa. Per le strade si sente parlare ucraino molto più frequentemente. Le ragioni sono ovvie ma vale la pena spendere qualche parola per inquadrare meglio la problematica. Quando per la prima volta misi piede a Kyjiv, che allora era solo una città dell’Unione Sovietica (capitale di una Repubblica Sovietica, paragonabile al capoluogo di una regione autonoma), il russo era la lingua prevalente; parlava ucraino chi proveniva dalle regioni dell’Ucraina occidentale e dalle campagne dell’Ucraina centro-orientale. In ogni caso si può dire che la quasi totalità degli abitanti dell’Ucraina sovietica comprendevano il russo. In sostanza in Ucraina hanno sempre coesistito diverse lingue, tra cui il russo e l’ucraino (in passato anche l’iddish e il polacco). Nella vita quotidiana degli abitanti di queste regioni la lingua non ha mai costituito un problema. Mi è capitato spesso di assistere a dialoghi tra persone che parlavano due lingue diverse (il russo e l’ucraino) e che si comprendevano senza alcun problema, dal momento che almeno uno dei due interlocutori comprendeva anche l’altra lingua. Ma una delle conseguenze dell’aggressione da parte della Federazione Russa del 24 febbraio del 2022 è stata la fine della “pacifica coesistenza” tra il russo e l’ucraino.
Tra l’altro a soffrire le peggiori conseguenze dell’invasione sono state proprio le regioni in prevalenza russofone dell’Ucraina orientale, ridotte in macerie dai continui bombardamenti. In ogni caso è fin troppo chiaro che non sono motivi linguistici alla base della decisione di invadere l’Ucraina. Tra l’altro, passeggiando per i viali di Kyjiv, sento parlare anche il russo (seppure meno frequentemente di qualche anno fa), specialmente da anziani (e la cosa non provoca alcuno scandalo o sensazione); invece i giovani a Kyjiv studiano e parlano quasi tutti un discreto inglese. Infatti quando arrivo all’appuntamento i ragazzi e le ragazze dell’organizzazione che ha invitato me, insieme a una piccola delegazione internazionale, mi dà il benvenuto in inglese. Nella piccola comunità internazionale di “hipster” della quale faccio parte si opta per questa “lingua franca”, che ormai bene o male tutti masticano, me compreso. Sono l’unico del gruppetto che conosce anche alcune misteriose, esotiche e inutili lingue slave (russo, ucraino e polacco), forse una gradita sorpresa per il comitato organizzatore, ma più che altro una bizzarria.
Ci hanno preparato un programma nutrito di visite e incontri con artisti e, più in generale, con altri giovani “hipster” locali. In questi incontri con la comunità locale dei “creativi” nessuno parla volentieri della guerra. Si cerca, nei limiti del possibile, di dimenticarla.
Ma la presenza della guerra si percepisce, insieme a un certo pudore nel mettere a nudo le cicatrici che sta lasciando nell’interiorità e nella memoria di tutte le persone, giovani e vecchi, uomini e donne, l’infausta data del giovedì 24 febbraio 2022. Un singolo giorno nel quale tutto è cambiato per tutti. Non è la prima volta che accade una cosa del genere. Era già successo, ad esempio, il sabato del 18 luglio del 1936, il giorno in cui un esercito golpista tentò di rovesciare il governo repubblicano in Spagna e che segnò l’inizio della Guerra civile spagnola (molte sono le analogie con quel fatto storico: come allora, i vertici militari che avevano pianificato l’azione inizialmente contavano su un rapido esito positivo).
Oppure pensiamo a tre anni dopo, il venerdì 1 settembre del 1939 con l’invasione della Polonia da parte delle truppe della Germania nazista e, due anni più tardi, la domenica del 22 giugno del 1941, quando ebbe inizio l’invasione dell’Unione Sovietica (come allora, anche in questo caso l’errore di avere lanciato le truppe su troppi obiettivi strategici nello stesso tempo determinò il mancato raggiungimento dello scopo principale: l’annientamento dello stato invaso da parte dell’esercito invasore). In un solo giorno, quel fatale giovedì, l’orizzonte esistenziale di milioni di persone, costrette ad accettare la possibilità concreta di perdere i propri cari o di finire sepolti vivi sotto le macerie della propria abitazione, è cambiato in modo radicale.
Da quel giorno siano passati ormai due anni, ma le persone con cui entriamo in contatto e con cui riusciamo a parlare, quando ci raccontano di quell’esperienza, tradiscono, anche senza volerlo, il trauma e la paura vissuti in quei giorni. Nel corso dei mesi successivi, col passare del tempo, la guerra si è trasformata in un dato di fatto, un elemento del paesaggio, come una catena montuosa, o meglio, come un fiume, che continua a colpire, strappare e trascinare via vite umane con la sua forza cieca e inarrestabile. Ma per noi che veniamo da paesi Ue questa non è la nostra “normalità” e dobbiamo fare una certa fatica ad ambientarci.
Durante il nostro breve soggiorno la città è stata risparmiata dai bombardamenti, ma col passare dei giorni ci rendiamo conto che la guerra è ovunque. Ce la ricordano le foto in memoria dei soldati morti al fronte sui muri, i traumi legati a ricordi vissuti direttamente dalle persone, che dalle regioni più colpite sono approdati nella capitale, dove le difese antiaeree garantiscono bene o male la possibilità di condurre una vita quasi “normale”. La tecnologia e gli aiuti dei paesi “occidentali” sono stati e continuano ad essere vitali per garantire questa fragile “normalità”. Comunque la si pensi, non si può negare che è grazie ai sistemi di difesa anti-missile Patriot se i palazzi del potere della capitale dell’Ucraina sono ancora in piedi e se i danni alle infrastrutture della città sono limitati. Inutile pensare che il Paese aggressore, dotato di un arsenale infinitamente più grande del Paese aggredito, a un tratto, di sua spontanea volontà, cesserà le operazioni militari senza avere raggiunto il suo obiettivo (l’annientamento del “nemico”).
I recentissimi sviluppi, ma anche il massiccio bombardamento delle maggiori città dell’Ucraina, tra cui la capitale, del 29 dicembre 2023 (si stima siano stati lanciati 110 missili in una sola notte) ne sono una triste dimostrazione. Dopo 24 mesi di conflitto bellico, la legittimità della guerra rappresenta una pura (e inutile) astrazione. Mi sono chiesto e ho domandato ai miei interlocutori locali se questa guerra sia l’ultima del secolo appena trascorso oppure la prima del nuovo secolo. Ma mi sono subito reso conto quanto fosse ridicola una distinzione di questo genere. Anche le bombe e i missili del secolo scorso uccidevano, allo stesso identico modo di quelli del nuovo secolo (in effetti, anche se una buona parte dell’armamento dell’esercito invasore è obsoleto, ha svolto e continua a svolgere il suo compito egregiamente).
La guerra non è un esercizio filosofico, ma possiede una sua agghiacciante logica. E questa, che probabilmente verrà ricordata come “la guerra dei droni”, giocattoli che si possono acquistare liberamente anche in ogni autogrill e che, opportunamente modificati, possono anche distruggere un carro armato, somiglia vagamente a un letale videogioco, ma non si differenzia in modo sostanziale dalle altre.
Durante il nostro soggiorno ci portano a visitare Irpin’, una paese a nord-ovest della capitale a soli otto chilometri di distanza. Lì nel mese di marzo del 2022 si è svolta una importante battaglia. L’esercito della Federazione Russa l’aveva occupata e saccheggiata (la spoliazione di negozi e appartamenti era una pratica diffusa e praticata senza alcun freno da parte delle truppe di occupazione nei primi mesi della guerra), ma dopo poche settimane gli ucraini sono riusciti a liberarla. Si stima che durante l’evacuazione della città, che conta poco più di 60mila abitanti, siano caduti 200 civili (le operazioni erano complicate anche dall’interruzione di strade e ponti per fermare l’esercito invasore). Questo è il punto più vicino alla capitale dove sono arrivati gli invasori, a soli dieci minuti dalla sua periferia.
C’ero capitato molti anni fa, nei primi anni Novanta, poco dopo la proclamazione dell’indipendenza dell’Ucraina (1991), Era una cittadina circondata da un bosco, bagnata da un fiume da cui prende il nome e nota per la sua aria più salubre rispetto a quella della capitale. Collegata da un trenino elettrico, era abitata perlopiù da pendolari. Prendevo anche io quel trenino elettrico per andare a Kyjiv e ricordo le facce tristi dei viaggiatori infagottati (all’epoca in autunno faceva molto più freddo), i mendicanti e gli strilloni che passavano in continuazione. L’Ucraina era un paese da inventare, nel quale ci si arrangiava. I negozi si erano riempiti ma la merce era decisamente troppo cara per lo stipendio di un insegnante o di un qualsiasi impiegato e l’inflazione si divorava i risparmi.
La situazione nel corso degli anni Novanta è gradualmente migliorata, ma quando sono arrivato a Irpin’ avevo ancora in mente i lontani ricordi di quegli anni difficili. In città sono ancora evidenti i segni della battaglia, le macerie annerite dagli incendi e le tracce delle esplosioni sull’asfalto. Ma si vedono anche i segni della rinascita: i cantieri della ricostruzione, i bambini che giocano nel parco pubblico. Il panorama che mi offre oggi la città, malgrado tutto quello che è successo, è sicuramente molto più vivace e allegro di trenta anni fa. Già prima della guerra la città, avendo accolto molti abitanti della capitale in cerca di pace e di aria pulita, si era rinnovata e ingrandita. Anche per questo oggi la ricostruzione procede piuttosto speditamente. Ma se nel 2022 l’esercito invasore avesse superato questa città e avesse puntato sulla capitale, a soli otto chilometri da qui, senza incontrare ostacoli, forse lo scenario oggi sarebbe completamente diverso. Probabilmente sia questa sia la capitale si sarebbe trasformata in una città-fantasma, al pari di quelle “conquistate” dall’esercito invasore, trasformate in un deserto di macerie.
L’assurdità di questa guerra oggi risiede proprio in questo: le risorse spese dai due eserciti hanno raggiunto cifre colossali, tali da non essere più comparabile con il valore delle risorse dei territori contesi. I vertici politici e militari, nel pianificare la cosiddetta “operazione militare speciale”, di certo avranno soppesato costi e benefici di tale impresa e con ogni probabilità avranno ritenuto che il guadagno sarebbe stato maggiore rispetto alle eventuali perdite. Ma già dopo il primo anno di guerra questo calcolo si è rivelato completamente errato. Le risorse economiche bruciate da parte degli invasori sono state di proporzioni talmente colossali, che nemmeno una vittoria militare, nella realtà per nulla semplice o scontata, avrebbe potuto ripagarle ed il prolungato conflitto bellico ha completamente distrutto ogni risorsa nei territori contesi. Si combatte accanitamente da mesi per città già rase al suolo. Ma a questo punto è entrata in gioco una logica che non è economica, ma puramente militare. Non importa il costo, ma la vittoria a ogni costo.
E tutto ciò mi porta a una amara conclusione: finché le circostanze giocheranno a favore del Paese invasore, si andrà avanti. L’arsenale della Federazione Russa non comprende solo una pressoché illimitata disponibilità di armamenti (di sicuro molto superiore a quelle di cui può disporre l’Ucraina), ma anche un grande apparato industriale interamente dedicato alla produzione militare, un sistema educativo nel quale ai bambini fin dall’asilo vengono inculcati i valori dell’eroismo militarista e la retorica della necessità del sacrificio della vita per la patria. A ciò si aggiunga l’impegno del Patriarcato di Mosca, schierato senza alcuna remora a servizio dell’esercito invasore e della retorica militarista del Cremlino, che promette un posto in paradiso ai soldati morti in battaglia e i mass-media, sotto il saldo controllo dei vertici al potere, nei quali è imperante la narrazione della guerra giusta, necessaria e necessariamente vittoriosa. Questo apparato, così coeso e compatto, può contare su cospicue risorse economiche che derivano dai proventi delle vendite delle risorse naturali, principalmente gas e petrolio.
Dal mio faticoso ritorno in Italia (un treno notturno fino al confine polacco, due treni in Polonia e un aereo) sono passati poco più di due mesi. Anche se la sua presenza su giornali e televisioni da mesi è “oscurata” da altri conflitti bellici, la guerra in Ucraina continua. Da qualche mese abbiamo festeggiato l’arrivo dell’anno nuovo. Anche lì da loro, malgrado le sirene dell’allarme antiaereo fossero risuonate nei giorni appena precedenti, mentre alla televisione passavano le immagini dei pompieri che scavano tra le macerie per soccorrere le vittime del più intenso bombardamento missilistico dall’inizio dell’invasione, la gente ha cercato di strappare qualche ora di svago, augurandosi un anno migliore di quello appena finito. Ma la pace è ancora una chimera. Per ora di certo sappiamo solo che questa, come tutte le altre guerre che l’hanno preceduta, un giorno finirà.
Questo testo è l’introduzione al libro di Left “Ucraina senza tregua” curato da Lorenzo Pompeo con contributi di Domenico Gallo, Pier Giorgio Ardeni, Mao Valpiana, Pino Ippolito Arminio, Gregorio Piccin, Andrea Ventura, Manuela Petrucci, Jean Leonard Touadi e molti altri
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