Il bambino poggia la schiena sul palo di una porta, il pallone tra le mani, lo sguardo tra l’assente e il sospeso, come senza aspettative. L’immagine in copertina è una sintesi diremmo di Mio padre non mi ha insegnato niente (edizioni Fuoriscena – gruppo RCS), l’ultimo romanzo di Massimiliano Smeriglio. Un titolo che pare un giudizio lapidario. Un’espressione che racchiude il principio inequivocabile intorno a cui si sviluppa la vita di Emme, “figlio dell’imperizia”, come viene descritto in quarta di copertina, che si fa artefice del suo destino, non accettando di rimanere prigioniero della sua stessa storia. Un libro che è il resoconto di un viaggio a ritroso nelle memorie nascoste di un personaggio che si evolve nel tempo mentre difficoltà, amarezza e desideri non espressi, o soffocati dalla povertà e dalle assenze, plasmano il suo carattere. Una storia nella quale tanti potranno rispecchiarsi, come fa la bella letteratura. Il senso della misura di ciò che è mancato a un figlio venuto al mondo contro la volontà dei genitori, frutto del primo rapporto occasionale «goffo e sbrigativo» tra due ragazzi poco più che adolescenti che le hanno tentate tutte pur di interrompere la gravidanza. E loro stessi, senza scrupolo alcuno, a metterlo a conoscenza di quello che è accaduto dal momento del suo concepimento: «Non credo fossero coscienti del mostro che cresce dentro quando ti raccontano, sorridendo, tutto quello che hanno fatto per non farti nascere. Sia chiaro non li biasimo per questo, anche se il silenzio sarebbe stata la scelta più amorevole. Conoscere i dettagli di tentativi reiterati di stroncarmi prima della venuta al mondo non ha aiutato», si legge. E le fasce di contenimento, sempre più strette per evitare lo scandalo, non furono efficaci per provocare l’asfissia dell’ospite indesiderato ma solo qualche segno quando, a metà degli anni Sessanta, fece il suo ingresso sulla scena: «Ero nato malconcio, con la testa un po’ deforme, stretta com’era dalle fasce di contenimento. Rimasi in ospedale, al San Giovanni, parecchi giorni prima di prendere una forma umana». Il quartiere romano della Garbatella, con le sue osterie frequentate da «uomini di mezza età consumati dall’alcol e giovani senza denti», è il teatro degli eventi di una famiglia che fa i conti con la povertà non soltanto materiale, ma soprattutto affettiva, e di bande di ragazzini che imparano a sopravvivere nei cortili tra una pallonata e l’altra. Il ritmo della memoria è incalzante e mette in sequenza le immagini di una realtà a tratti cruda, violenta, impietosa. Emme cresce con due figure genitoriali «sfocate» al punto che «per non venire spazzato via dalla potenza inerziale degli eventi», si aggrappa ai nonni e alle zie e più tardi, ai tempi degli studi universitari, si fa prendere dall’attivismo politico e culturale per non vedere «le strettoie della vita quotidiana». Consapevole che avrebbe dovuto farcela da solo, compie le sue scelte mentre i rapporti con la sua famiglia si allentano sempre di più. Sbiadiscono, si silenziano. Alla fine il protagonista trova la via d’uscita per non rimanere intrappolato tra rancore e propositi di vendetta: «Nel tempo ho cercato di allenarmi alla bellezza, senza peraltro prendere congedo da mondi ammaccati. Nel mezzo tra l’alto e il basso si coglie il punto di luce, quello che lascia senza fiato. O semplicemente solleva speranze». La storia personale di Emme incrocia in più punti la grande Storia: le Fosse Ardeatine, con il bisnonno Enrico Mancini tra le vittime della furia nazista; la contestazione studentesca della Pantera; l’omicidio di Vincenzo Paparelli in un derby Roma-Lazio e quello di Valerio Verbano.
Un noir sociale, un racconto di vita, con le sue storture e contraddizioni. «Raccontare una storia può servire a comunicare qualcosa, in maniera diretta e dirompente, a portare i lettori dentro la vita di altre persone stabilendo una connessione intima. E questa è una storia piccola, familiare – ci spiega Smeriglio, docente universitario che di recente, lo ricordiamo, ha lasciato la delegazione dem a Bruxelles – inserita dentro un contesto storico ampio che è quello italiano della fine del Novecento. Un contesto in bianco e nero, politicamente stabile, ordinato, e tuttavia non promettente per le classi subalterne in cui il protagonista della storia si muove. Una storia diversa da quella dei miei romanzi precedenti: qui c’è un viaggio introspettivo dell’io narrante che scava tra i suoi sentimenti più profondi e porta alla luce i segni che riporta sulla propria pelle. Le vicende collettive sono poste su un piano diverso, secondario, e assumono rilevanza nel momento in cui si intrecciano con quelle personali».
Un io narrante coraggioso, che trova le parole per riportare i disperati tentativi di abortire da parte della madre, quasi per prendere coscienza del suo arrivo indesiderato al mondo. Un figlio che misura la distanza affettiva abissale con un padre che non gli ha insegnato neanche a guidare o a fare il nodo della cravatta: «Anche se non la definisco un’autobiografia, è una storia densa di verità che mi riguarda da vicino, che prende spunto da alcune vicende familiari per poi dipanarsi in un contesto più ampio». Scrivere è un’urgenza e un atto “salvifico” per Smeriglio: «La mia vicenda personale si intreccia molto e in maniera confusa con quella dell’io narrante. Scrivere questa storia è stata una necessità, un urgenza per portare fuori da me la vicenda». Tuttavia, come un happy ending, «il destino non è un finale già scritto», dice Smeriglio, perché «la vita del protagonista trova una sua evoluzione anche attraverso il rapporto con la famiglia allargata, con i nonni e con gli amici, in un contesto popolare in cui anche il contesto affettivo è largo, è il quartiere che educa. Di fronte ad una tragedia iniziale ci sono degli strumenti, dei corrimano a cui poggiarsi per arrivare ad un risvolto positivo».
Emme non resta intrappolato nel gioco della fatalità. Riesce ad affrancarsi dalla sua condizione d’origine: «Ci sono varie accezioni della povertà nel racconto. Una povertà materiale piuttosto evidente, un dato abbastanza diffuso nel contesto sociale di provenienza. C’è una povertà affettiva e relazionale, una povertà di linguaggio che è ancora più grave. Nella famiglia di Emme – sottolinea ancora l’autore – i linguaggi sono scarnificati e i sentimenti non trovano le parole. Da questo status ci si emancipa con il tempo sviluppando meccanismi di consapevolezza e cercando di tenere a bada i demoni, cioè la rabbia, l’odio, il rancore, perché l’esito di contesti di questo tipo è inevitabilmente meccanismi di odio che sono prevalentemente auto-distruttivi. C’è una bella frase dello scrittore americano Don Winslow che dice ‘si diventa ciò che si odia’. Bisogna fare un grande lavoro per non diventare come i propri aguzzini, anche se aguzzini inconsapevoli o non del tutto consapevoli come i genitori dell’Io narrante. Ci si emancipa con un lavoro costante di centratura della propria soggettività».
In questo suo quinto romanzo, Massimiliano Smeriglio ribalta l’inquadratura sul sociale non rispettando la logica delle categorie prestabilite. Le fa saltare, esattamente come fa la vita. E compiendo un passo ulteriore fa in modo che il protagonista non possa essere etichettato come vittima, andando oltre una narrazione di persona in balia degli eventi. È un soggetto attivo che prende in mano le redini della propria vita: «Non è detto che le vite periferiche siano sempre condannate ad un esito scritto al momento della nascita o dal numero del codice di avviamento postale: si può determinare un’evoluzione dell’essere, della persona dentro un contesto sociale ricco dal punto di vista affettivo, culturale e delle relazioni. L’io narrante pronuncia la frase “si può essere branco senza diventare iene”, cioè si può sviluppare una forma di affettività diffusa nel gruppo degli amici o della famiglia allargata senza per questo degenerare in forme negative. Per Emme il rapporto con il gruppo dei pari, che perdura nel tempo, è stato fondamentale per trovare la forza e le risorse per venirne fuori senza sporcarsi. Per la presenza di questo elemento relativo alla dimensione educante, questo è considerato un romanzo di formazione».
Con la sua attività Smeriglio mette in connessione politica e letteratura, secondo il principio dei vasi comunicanti: «L’impegno politico è una forma suprema di connessione di diversi linguaggi e prospettive, e pertanto non può essere scisso da una dimensione culturale. La crisi dell’attuale sistema politico italiano è la conseguenza della scarsissima propensione alla curiosità, al mancato rapporto con gli intellettuali e con tutto ciò che si muove fuori dalla bolla politicista. Cerco di tenere aperti tutti i canali – ci dice – che vanno nella direzione della rigenerazione e della ricostruzione di una narrazione della società, che è culturale e poi diventa politica. La politica ridotta all’amministrazione, al politicismo, al posizionamento senza più ideologia o sistema valoriale su cui poggiare ha determinato il disastro della sinistra contemporanea».
Prendendo spunto dal titolo del libro, formula il suo giudizio sull’eredità lasciata dai padri della politica. «A differenza dei padri naturali, quelli della politica si possono scegliere – spiega – e quindi è più facile non sbagliare. Noi abbiamo alle spalle una generazione che ha costruito la nostra Repubblica, persone che hanno sofferto, fatto la lotta di liberazione, la Resistenza, che hanno dovuto fare scelte estreme». Tra i miei padri politici di Smeriglio, c’è il mio bisnonno, Enrico Mancini, partigiano combattente di Giustizia e Libertà, torturato a via Tasso e alla pensione Oltremare dalla banda Koch e poi trucidato alle Fosse Ardeatine. «Altri padri e madri della politica per me – prosegue Smeriglio – sono Umberto Terracini, Piero Calamandrei, Antonio Gramsci, Rosa Luxemburg, Piero Gobetti. Il Novecento italiano è stato un periodo storico non solo tragico, ma anche straordinario per l’emancipazione collettiva, la crescita del movimento operaio, le grandi conquiste dallo Statuto dei Lavoratori, al divorzio, all’aborto, alla legge 180 sui manicomi. Tante cose che sono state fatte grazie all’impegno di milioni di persone che hanno reso in quel frangente, nei primi cinquant’anni della Repubblica, l’Italia un paese migliore». Il suo romanzo è, dunque, anche un contributo al dibattito politico e sociale del Paese. Chiediamo se quella di oggi è una sinistra che non riesce a essere un baluardo della giustizia sociale. Smeriglio è netto: «Veniamo da 11 anni di governi tecnici in cui con tutto il rispetto per grandi personalità tecnocratiche abbiamo fatto passare per persone di sinistra la Fornero, Monti e Draghi. Da uomo di sinistra non li riconosco come tali. Negli ultimi vent’anni la sinistra non ha avuto a cuore la vita e l’emancipazione degli ultimi, di chi vive di salario, di pensione, e ciò ha portato al trionfo prima del populismo e adesso della destra perché non veniamo più percepiti dal popolo come un interlocutore utile a migliorare le condizioni di vita delle persone. In questo senso – conclude lo scrittore e politico – la straordinaria storia del partito comunista italiano, del movimento femminista e dei movimenti sociali post 1968, sembra non essere particolarmente ascoltata dall’attuale classe dirigente della sinistra italiana. Se non si rimette al centro il conflitto tra le classi, come motore della storia, non ci sarà alcuna svolta».