Un veliero grande, imponente, immerso nel verde degli alberi e del prato che lo circonda. Allo stesso tempo questo maestoso veliero si infrange tra le onde. Un’ immagine fuori dal comune e che fa pensare all’impresa di Fitzcarraldo nel voler portare una nave oltre la montagna nell’omonimo film di Werner Herzog. Il visionario sognatore riesce nel suo intento e non possiamo non ricordare la celebre frase del film «Chi sogna può muovere le montagne». Questa immagine però non è di un film, ma è una meravigliosa opera architettonica realizzata dall’architetto Frank Gehry. È la sede della Fondazione Louis Vuitton situata nel sedicesimo arrondissement di Parigi, tra gli alberi del Bois de Boulogne (il “Bosco di Boulogne”).
Fino al 2 aprile 2024 la Fondazione Louis Vuitton ospita una mostra altrettanto meravigliosa dedicata all’artista Mark Rothko. Mostra curata da Suzanne Pagé, Christopher Rothko, François Michaud e Ludovic Delalande, Claudia Buizza, Magdalena Gemra, Cordélia de Brosses. Iniziando il percorso viene da subito voglia di porsi in totale ricettività e di lasciar parlare soltanto l’artista attraverso i suoi 115 dipinti, mettendo a tacere dentro di sé quanto già visto, letto, studiato in precedenza. La mostra infatti si snoda in un racconto completo per immagini della sua vita interiore, un libro sorprendentemente aperto sul percorso di un uomo che ad ogni tela ci grida il suo sentire.
L’esposizione è stata pensata in ordine cronologico. Nella prima sala sono presenti una serie di quadri figurativi per lo più ambientati in situazioni urbane, stazione della metropolitana, una strada angusta, l’autoritratto con gli occhi neri che ci presentano un Rothkovitz (Markus Yakovlevich Rothkowitz è il nome originario di Rothko) che si esprime nello stile del tempo. La sala si chiude con una immagine femminile, la rappresentazione di una giovane donna nuda che tiene lo sguardo leggermente abbassato. Ci piace leggere qui il punto di partenza dell’artista alla ricerca di un suo linguaggio intimo che esprime un sentire quasi di ribellione ad una normalità che lo portava verso la china della depressione. Come se volesse parlarci di una ricerca che passa attraverso l’immagine femminile. È il 1938 e sapremo in seguito leggendo la sua storia che anni addietro era andato a trovare un amico all’Arts Students League dove gli studenti erano intenti a ritrarre una modella nuda. Rimase pensoso e capì che quella sarebbe stata la sua strada.
La seconda sala espone il periodo che va dai primi anni Quaranta, periodo surrealista e mitologico fino all’irruzione dell’esigenza di esprimersi mediante forme e colori. “Col passare del tempo – racconta il figlio Christopher Rothko – decise che quei miti erano ancora troppo specifici e si spostò sempre più verso l’astrazione, verso dipinti che, attraverso la loro stessa astrazione, potrebbero toccare una parte di noi. Anche questo è preverbale. Non si tratta di una storia. Si tratta di una comprensione più generale di cosa significhi essere umani”. In questa ricerca di cosa significhi essere umani, Rothko rifiuta la parola astrazione «La mia arte non è astratta, vive e respira». Nel 1944 Rothko si separa definitivamente dalla prima moglie, Edith Sachar, di cui dirà che con lei era “come vivere con un frigorifero”.
Nel 1945 c’è la sua prima mostra in America di venti dipinti presso la galleria Art of This Century di Peggy Guggenheim. Nello stesso anno incontra la sua futura moglie, Mary Alice Beistle, conosciuta come Mell. Arriva il 1946 e con la serie di dipinti conosciuta come Multiforms, il suo stile continua a evolversi e si unisce alla Betty Parsons Gallery, dove esporrà ogni anno fino al 1951.
Ed è proprio in questo periodo che nasce Rothko, l’espressività artistica e potente con cui lo conosciamo, un nuovo rapporto con una giovane donna, un suggestivo viaggio in Europa, l’inizio dei riconoscimenti. «Quando si realizza un grande quadro si è al suo interno, non si può decidere nulla» leggiamo sui pannelli della mostra.
Dalla sala successiva in poi con i Multiforms è tutta meraviglia, ci avviciniamo alle opere come da lui richiesto, a 45 centimetri di distanza: «in questo modo l’osservatore viene inglobato negli spazi cromatici e apprende il loro movimento interno e la mancanza di limiti esterni ben delineati sia come malessere dinnanzi a quanto non può essere percepito sia come libertà di superare i limiti dell’esistenza umana» (Jacob Baal-Teshuva, Rothko. Taschen 2003).
È difficile descrivere la bellezza di queste opere, il colore qui tocca corde profondissime. Lo stesso Rothko ci dice che negli occhi di uno spettatore insensibile le sue opere non sarebbero nulla. Ed è proprio vero, bisogna lasciarsi andare, spogliarsi di ogni pensiero razionale. Solo così quei colori e quelle forme arrivano nel profondo suscitando emozioni a volte fino alle lacrime.
Ad un certo punto del percorso troviamo a tutta parete la celebre foto di Hans Namuth del 1964 che ritrae Rothko di spalle intento a guardare dentro il suo quadro, forse potremmo pensare, nel desiderio di oltrepassare ogni strato di colore alla ricerca del mondo che c’è dietro: «I quadri, pensava talvolta, erano come paraventi dietro ai quali lui nascondeva il suo essere sé stesso» (Jan Brokken, Anime Baltiche, Iperborea). E poi ancora lo stesso Rothko «I miei dipinti sono in verità facciate. A volte apro una porta e una finestra, altre volte due porte e due finestre».
È in questa sala che si cominciano ad aprire le grandi vetrate curve e si comincia a leggere la struttura dell’edificio che ci ospita. Continuando a salire ci viene offerta la possibilità di una pausa, un tour all’esterno fin sulle terrazze che ci permette di osservare la costruzione in tutta la sua complessità ed il panorama parigino a 360 gradi, dalla Tour Eiffel ai grattacieli della Défense. Ma ciò che imprigiona la nostra attenzione da subito sono queste vele di vetro tenute su da un fitto incrociarsi di travi, questo spettacolare veliero che racchiude l’edificio formato da più corpi candidi detti “iceberg” all’interno dei quali vengono ospitate le mostre, i convegni, gli eventi culturali. Vista da qui è una struttura complessa, impossibile da tener su, se non al prezzo di questa strabiliante talvolta ponderosa foresta tecnologica. L’impressione che ne abbiamo verrà mitigata all’esterno guardando il vascello dal parco, dove le vele si distendono tra la vegetazione confermando le suggestioni che avevamo provato all’arrivo.
Riprendendo il percorso all’interno, troviamo ulteriori opere di Rothko in cui colore e luce assumono toni dal rosso scuro al blu, dai marroni al viola. La sensazione qui è come se l’aria si facesse densa come i colori impressi sulle tele. Si tratta della serie Seagram murals commissionati per il ristorante Four Seasons di New York. L’artista rendendosi conto che in quell’edificio non ci sarebbe stata la giusta atmosfera per le sue opere, decise di rinunciare alla commissione. In un secondo momento le opere verranno esposte alla retrospettiva al MoMa nel 1961 e alcune donate alla Tate Gallery di Londra e al Kawamura Memorial Museum in Giappone.
Dopo un’immersione nella serie Seagram murals attende lo spettatore un’altra immersione nel colore, un colore ancora più scuro. In quella della serie Blackforms.
“È proprio con questa serie che Rothko capì che la luce non proviene solo dai faretti posizionati in una stanza per illuminare i dipinti. Realizzò che questa luce, quando l’intensità luminosa circostante veniva abbassata, poteva provenire direttamente dal dipinto stesso. Ed è in quel momento che comprese qualcosa che sarebbe diventato quasi un filo conduttore in tutta la sua opera successiva” racconta Francois Michaud, uno dei curatori.
Siamo alla penultima sala, quella del suo toccante incontro con Alberto Giacometti. I due artisti si conobbero nell’ottobre 1965 in occasione del grande ricevimento in onore dello scultore le cui opere erano esposte in una personale al MoMa di New York. Rothko aveva iniziato a lavorare alle tele grigie e nere per la cappella De Menil a Houston, Texas (all’interno del percorso è presente anche una riproduzione della cappella) e Giacometti già malato non lavorava quasi più e morirà di lì a pochi mesi. In questa sala della mostra, che ricrea il progetto non realizzato per una sede Unesco, le sculture verticali di Giacometti e i piani orizzontali di Rothko sembrano dialogare, in un silenzio denso e carico di tutto il percorso e dell’epilogo della loro vita di artisti.
«Per noi l’arte è un’avventura sconosciuta in un mondo sconosciuto che solo chi accetta di prenderne il rischio può esplorare».
Nell’ultima sala torna inaspettatamente il colore. Forse è proprio in questo momento che ci arriva una suggestione, quella che le opere dell’artista, quelle più cupe forse non sono state dettate dalla depressione come in molti pensano. Forse sono dettate da una ricerca personale, profondissima. Prendere il rischio dicevamo poco fa, e il suo prendere il rischio di “guardare dove non si è mai potuto guardare” è ben raccontato da Massimo Fagioli in un articolo sulle pagine di Left (Left n° 45 del 9 novembre 2007 “Un ritorno all’immagine”):
“È giunto al colore senza linea e si è ucciso. Era il 1970. La ricreazione della prima immagine mentale è soltanto colore, dice Rothko. Ma tendere al colore puro senza linea ci fa morire. Non ho potuto dirgli che è vero soltanto se la vitalità è senza linea”.
Parole forse un po’ difficili ma che profondamente risuonano bene.