L’invasione russa in Ucraina e la nuova esplosione del contesto Mediorientale, in particolare con l’attacco militare su larga scala di Israele a Gaza, hanno in un certo senso rimesso la guerra nel fuoco di attenzione dell’opinione pubblica occidentale. Non che i conflitti armati fossero spariti dalla faccia della Terra e ci fosse prima uno stato di pace: troppe altre guerre “vecchie” (Siria, Libia, contesti come Iraq e Afghanistan) e “nuove” (Nagorno Karabakh, Sudan, le situazioni di tensione in Sud America e nel Sudest asiatico) continuano ancora oggi ad essere ignorate. Nonostante le numerose vittime e i devastanti impatti riverberanti. D’altronde i dati ci dicono come il tasso di sicurezza globale sia in continuo calo (proprio perché i conflitti armati sono in aumento) e che il 2022 sia stato l’anno con maggiori morti a causa di violenza organizzata da almeno 30 anni. E il 2023 ancora peggio…
Un aspetto strutturale e cruciale di questo stato di conflitto e insicurezza permanente è quello della dimensione economica e di guadagno “esplosivo” per alcuni centri di potere e capitale. Alcune ricerche condotte da Rete pace disarmo avevano già sottolineato, dopo i primi mesi del conflitto in Ucraina, una robusta crescita in Borsa delle industrie militari in seguito alle decisioni internazionali prese in quel contesto. Un calo momentaneo si era configurato solo come pausa tecnica di “realizzo profitto” sul mercato finanziario, a dimostrazione del fatto che molte delle dinamiche di questo comparto hanno poco a che fare con politica, relazioni internazionali o grandi questioni come democrazia e diritti.
Non a caso l’acuirsi delle tensioni su molti scacchieri, spesso opportunamente alimentate, era esplicitamente indicato come opportunità e prospettiva di guadagno dai manager delle principali aziende militari. Che ne parlavano apertamente già ben prima del febbraio 2022.
La situazione attuale conferma questa lettura; anzi, una recente analisi del Financial Times sui dati tendenziali di borsa ne fornisce una dimostrazione che va oltre il livello di banali e consueti luoghi comuni. La media dei titoli del “settore Difesa” ha visto sperimentato un aumento del 25% nel corso del 2023; in particolare l’indice europeo Stoxx per aerospazio e difesa è salito di oltre il 50%. Dobbiamo però sempre ricordare che la tendenza azionaria è solo un indicatore indiretto degli affari armati, che si basa su una “previsione di guadagno” che ingolosisce investitori e speculatori più concretamente basata sui dati del portafoglio ordini, che sono in tal senso molto più significativi. Secondo i dati del quotidiano della City, riguardanti 15 tra le principali aziende militari, alla fine del 2022 (ultimo anno con dati completi disponibili) il totale degli ordini confermati era di 777,6 miliardi di dollari, in aumento sui 701,2 miliardi di dollari di due anni prima. Tendenza proseguita anche nei primi sei mesi del 2023 (con 764 miliardi di dollari già confermati), il che evidenzia come ci si trovi solo all’inizio di una nuova età dell’oro per l’industria militare.
Che però non nasce negli ultimi due anni, ma ha radici più profonde e lo si capisce bene considerando altri dati rilevanti. A fine dicembre il Sipri di Stoccolma (Istituto internazionale di ricerche sulla pace ndr) ha diffuso la sua lista annuale delle prime 100 aziende militari al mondo, riferita al 2022. L’analisi evidenzia un fatturato totale di poco meno di 600 miliardi di dollari che è rimasto in linea con l’anno precedente proprio perché l’industria non è stata ancora in grado di “assorbire” il grande salto, ormai già deciso, della spesa militare globale (che, va ricordato, proprio nel 2022 ha raggiunto al massimo storico di 2.240 miliardi di dollari). I motivi sono prettamente tecnici (riorganizzazione della produzione, implementazione di nuovi impianti, difficoltà nell’approvvigionamento di materie prime, necessità di adattare la logistica) perché dal punto di vista decisionale non ci sono certo nubi all’orizzonte per gli affari armati. D’altronde i tempi delle decisioni politiche sui bilanci pubblici e delle tempistiche su ordini, contratti e dettagli tecnici sono così lunghi che pure l’invasione russa di quasi due anni fa si sta oggi appena manifestando nel portafoglio ordini e quindi pochissimo nei fatturati. A parte ovviamente per quel tipo di materiali con immediata richiesta a seguito di conflitti ad alta intensità (come il munizionamento o le artiglierie, lo abbiamo visto in Ucraina) o per le produzioni particolarmente innovative (i droni, come sperimentato ormai dappertutto).
Per capire davvero cosa succede nel campo dell’industria militare abbiamo dunque bisogno di uno sguardo più allargato anche sul passato, che sappia cogliere una dinamica molto più elaborata e non dipendente solo da situazioni di conflitto specifiche. Non dobbiamo commettere infatti l’errore di considerare occasionali delle scelte che sono invece strutturali: che si facciano passare come “eccezionali” (dalla politica e dagli interessi armati) dipende solo dall’approccio di propaganda scelto per farle digerire senza proteste alle opinioni pubbliche di tutto il mondo. La retorica politica di sostegno alle armi, prima invece tendenzialmente occultato, è la vera novità che si è resa visibile nel comparto militare dopo la pandemia di Covid-19, mentre l’enorme crescita degli affari armati non è di certo iniziata due anni fa. Ancora una volta lo dimostrano plasticamente i dati del Financial Times sul portafoglio ordini delle prime 15 aziende militari: abbiamo già scritto come siano cresciuti di oltre il 10% negli ultimi due anni, ma il salto veramente “esplosivo” si è avuto già prima: l’aumento negli ultimi otto anni è stato del 76%, dai 441,8 miliardi nel 2015 ai già citati 777,6 del 2022.
Ancora una volta il motore di tutto è la crescita della spesa militare, ormai “sdoganata” e non più nascosta. Come notato con precisione dal recente Rapporto Arming Europe, pubblicato da Greenpeace, nell’ultimo decennio (2013-2023) le spese militari hanno registrato in Europa un aumento record di 14 volte superiore a quello del Pil (+46% nei Paesi Nato-Ue, +26% in Italia) trainato soprattutto dall’acquisto di nuove armi (+168% nei Paesi Nato-Ue; +132% in Italia). A livello globale la spesa militare è praticamente raddoppiata dal 2001 in poi, sperimentando un trend di crescita più forte soprattutto nell’ambito del procurement militare di nuovi sistemi d’arma. La già citata Sipri Top100 Arms ha visto un fatturato raddoppiato nello stesso periodo, e la crescita dal 2015 (da quando vengono valutate anche le aziende cinesi) è del 14%.
Non è un caso quindi che il trend in Borsa dell’industria militare post 2001 (beneficiando delle scelte legate alle “guerre infinite al terrorismo”) sia ancora più spaventoso di quello recente. Ad esempio un’azione di Lockheed Martin o di Northrop Grumman è passata da meno di 30 dollari ai 450 attuali, quella di General Dynamics da 27 a 250. Una di Rheinmetall valeva 10 euro ed ora ha un prezzo di oltre 300 e pure Leonardo (nonostante un calo fisiologico per motivi contingenti e specifici durante la dismissione del proprio civile) negli ultimi dieci anni ha decuplicato il proprio valore azionario.
Il che rafforza la tesi che si tratti di dinamiche strutturali, non episodiche, alimentate da scelte politiche sorrette da retoriche appositamente ideate per portare alla formazione di un complesso di cui oggi occorre allargare la denominazione: “militare-industriale-finanziario”. Ben diverso da quello del XX secolo. Tra i principali azionisti delle maggiori aziende di armi troviamo infatti sempre gli stessi nomi, quelli di “mega fondi” come BlackRock, Vanguard, Capital Group, Wellington, State Street, Jp Morgan… il che suggerisce anche l’idea che non sia certo la “concorrenza” la base di questo settore. Anzi.
Riassumendo: solo valutando un trend più esteso e articolato (in cui si mettono in connessione dati diversi) si può rafforzare l’intuizione quasi banale di un continuo sfruttamento della guerra (e di tutto quanto ne deriva, anche in termini di sofferenza e distruzione) da parte di certi attori. Per poter cercare di contrastare efficacemente la propaganda armata di chi ha interessi in questo campo e della politica ormai succube di questo mantra che non migliora di certo la condizione di sicurezza o di pace del mondo.
L’autore: Francesco Vignarca è coordinatore Campagne della Rete italiana Pace Disarmo
L’articolo è stato pubblicato sul numero di Left di febbraio 2024