Il film di Mati Diop, Orso d’oro 2024, racconta la restituzione al Benin di opere d’arte trafugate dai francesi nell’800, mettendo a fuoco il presente: le ambiguità politiche, la pretesa superiorità scientifica degli ex Paesi coloniali. E il valore del patrimonio per i giovani africani
Ben poca risonanza ha avuto, sulla nostra stampa mainstream la vittoria alla Berlinale 2024 da parte di Dahomey, il film documentario di Mati Diop sulla recente restituzione di 26 opere d’arte saccheggiate dai francesi nell’omonima colonia alla fine del XIX secolo. Difficile, del resto, che tematiche come quelle trattate nel lungometraggio di Diop risultassero appetibili ad una informazione come la nostra da sempre caratterizzata da una pervicace e generalizzata afasia sul nostro e l’altrui passato coloniale. Eppure l’attuale revival, sebbene velleitario e a tratti farsesco, di talune posture neocoloniali nel cosiddetto piano Mattei dovrebbe per lo meno sollecitarci ad approfondire un tema - quello del colonialismo europeo in Africa - che è radice ineludibile degli equilibri geopolitici di oggi e di domani. È questo, d’altronde, l’obiettivo del lungometraggio francese, che unisce una prima parte di finzione onirica ad una seconda prettamente documentaristica e in cui gli oggetti di un tesoro artistico del passato sono l’innesco per raccontare le ambiguità e le incertezze del presente. Dahomey era la denominazione di un antico regno dell’Africa subsahariana occidentale, presente, come risulta dalle fonti, almeno dal XVII secolo e la cui ricchezza fu dovuta anche al commercio degli schiavi. La penetrazione coloniale francese, avviata fin dai primi decenni del XIX secolo, fu poi sancita nella Conferenza di Berlino del 1884-1885, durante la quale le principali potenze europee si spartirono a tavolino i territori africani, come se il continente fosse di fatto terra nullius. Fu il così detto struggle for Africa, ultima fase del colonialismo moderno europeo, caratterizzata da massacri generalizzati e dal primo genocidio del ’900, quello delle popolazioni Herero e Nama, nell’odierna Namibia, ad opera dell’esercito tedesco. Esito collaterale delle aggressioni militari europee nel continente africano divennero i reiterati saccheggi del patrimonio culturale, considerato dalle truppe coloniali quale preda di guerra risarcitoria e che andrà ad arricchire sia i musei che, per molti decenni e ancora oggi, il commercio occidentale d’arte.

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